Chissà che viaggio dovettero fare dal laboratorio di Napoli fino a palazzo Calò le due statue di Gesù morto e dell’Addolorata. Su carri trainati da cavalli, su strade sconnesse e polverose. Chissà quali precauzioni furono prese all’epoca per preservarle da urti accidentali. E quando finalmente, nel cortile del palazzo nobiliare, mentre i cavalli stanchi e sudati si abbeveravano nella vasca di pietra viva, i facchini scaricavano il prezioso carico dai carri, il maggiordomo di casa dava raccomandazioni su come effettuare le operazioni creando più disordine che aiuto, chissà che espressione dovette disegnarsi sul volto di don Diego Calò quando aperte le casse di legno, tolta la paglia poté scorgere i volti del Gesù e della sua mamma Addolorata.
Come era fiero di quelle statue don Diego e con lui tutta la sua famiglia. Ogni venerdì Santo per lui e poi successivamente per i suoi eredi, poter dar vita alla processione di quelle due statue, con la essenziale collaborazione delle confraternita cittadine, era motivo di onore e di vanto.
Chissà se nella sua mente o in quella dei suoi successori sarà mai passata l’idea che dopo oltre 250 anni quella processione si sarebbe ancora svolta e che il Papa avrebbe concesso per quella straordinaria occasione un anno giubilare e che addirittura un giorno almeno una di quelle due statue sarebbe potuta andare davanti al Santo Padre. Era impensabile perché i tempi erano diversi, le distanze siderali. Nel 1765 Taranto era parte del regno borbonico delle due Sicilie, retto al tempo da re Ferdinando. Roma era invece la capitale dello stato del Vaticano su cui regnava il Papa re Clemente XIII, quindi uno stato estero, distante giorni e giorni di viaggio e per raggiungere il quale ci sarebbero voluti permessi per attraversare le dogane, dazi da pagare e soprattutto, lungo il tragitto, protezione dai briganti che imperversavano al tempo. La strada da percorrere sarebbe stata abbastanza simile a quella attuale, la consolare Appia che attraverso le attuali Puglia e Campania arrivava sino a Roma. Poi in meno di un secolo dall’anno della donazione di Francescantonio Calò, prima i moti del ’48 e poi l’unità del 1861 e nasceva l’Italia; in tutto questo la confraternita del Carmine ogni venerdì santo portava in processione le due statue originarie e poi man mano tutte le altre.
E poi un giorno del 2014, nel corso dell’anno giubilare concesso da Sua Santità Francesco, una delle due statue, quella della Beata Vergine Addolorata, fu portata fuori dalla sua nicchia, preparata con tutti gli accorgimenti del caso, e partì. Destinazione Roma, Vaticano, piazza San Pietro per essere benedetta dal Santo Padre. Portata a spalle da otto confratelli e posta sul sagrato della Basilica, mentre la piazza brulicava di tarantini e da casa tanti collegati alla tv o al pc per scorgere qualche immagine.
Nemmeno un mese prima aveva fatto rientro, la mattina del sabato Santo, nella chiesa del Carmine al termine di quella memorabile processione dei Sacri Misteri. Memorabile per tanti motivi, ma uno in particolare che riguardò le due statue donate dal Calò che rientrarono attaccate: le sdanghe della Mamma unite a quelle del Figlio, senza staccarsi un attimo, in un silenzio strano. Sul sagrato della chiesa, oltre le immancabili e struggenti note di Jone si poteva ascoltare solo il rumore dei medaglieri e quello delle sdanghe delle due statue che si toccavano leggermente, tutti gli altri suoni sembrava restassero al di là delle transenne.
La statua della Vergine Addolorata della Confraternita del Carmine ricorderà per i prossimi 250 anni e per tanti altri ancora che quel maggio, il suo mese, del 2014 nel quale oltre ad uscire per la processione dei Misteri poté fare una “uscita straordinaria” affinché il successore di Pietro, quel Pietro che Lei aveva conosciuto, quello che suo Figlio aveva designato come suo successore, potesse benedirla. E don Diego da lassù avrà visto, sarà stato felice ed avrà approvato, ancora una volta, la scelta che suo successore Francescantonio fece quell’aprile del 1765.