giovedì 20 novembre 2014

Andrea Santoro 

Il 16 luglio del 2014 è stata una delle giornate più emozionanti della mia vita. L’insonnia notturna, l’ansia prima della cerimonia, l’emozione di indossare nell’oratorio, per la prima volta, l’abito di rito, l’imposizione dello Scapolare, la processione della sera in cui noi fratelli, tutti insieme, abbiamo accompagnato la nostra amata Mamma.

Nonostante, però, la stanchezza della prima processione volevo che quella giornata non finisse mai, non avrei voluto togliere il mio amato abito di rito. Ricordo la mia amarezza e tristezza quando, oramai al termine del cammino, ci siamo tutti radunati in Piazza Carmine per l’ultima preghiera e per consentire alla Vergine di rientrare a casa. Il motivo principale, però, per cui non volevo che quella giornata finisse era perché sapevo che a settembre sarei andato via da Taranto, allontanandomi, conseguentemente, dalla confraternita.

Essendo un ragazzo di 19 anni, anch’io sono arrivato all’ultimo anno di liceo e alla scelta universitaria, un momento della mia vita vissuto in maniera piuttosto difficile, dal momento che non volevo allontanarmi dalla mia famiglia, dai miei amici e dalla splendida realtà confraternale, che avevo scoperto proprio in quest’ultimo anno a Taranto. 

Tant’è che mi arrabbiavo con me stesso per averci impiegato fin troppo tempo a prendere questa decisione, pensando al fatto che non sarei stato presente alle adorazioni di Gesù Morto, non avrei assistito all’inizio del corso di noviziato, né tantomeno avrei potuto partecipare alle processioni, alle Viae Crucis le domeniche di Quaresima e a tutti gli eventi del calendario sociale. Al solo pensiero, m’intristivo e cadeva sopra di me una pesante malinconia. L’unico rimedio che riusciva a tirarmi su erano le nostre fantastiche marce funebri, che mi hanno anche accompagnato nel mio viaggio da Taranto a Piacenza.


I suoni forti di “A Gravame”, la troccola in “Tristezze”, i rintocchi di “Mamma”, i colpi di “Venerdì Santo” mi facevano compagnia, mi davano coraggio, m’infondevano sicurezza e fiducia e, cosa che ad alcuni sembrerà strana, mi facevano smettere di piangere.

 L’unica medicina per me erano le note struggenti delle marce che accompagnano il cammino dolente della nostra Mamma Addolorata e di Gesù, nostro Redentore, nella Settimana Santa, oltreché dei nostri confratelli. Mi aiutavano a pensare che non sarebbe stato male il cammino universitario e la vita del collegio, ma più di ogni altra cosa, che Maria e il suo misericordioso Figlio mi avrebbero accompagnato dall’alto, aiutato a fare amicizie, ad ambientarmi e a superare il trauma del distacco e la nostalgia.

Oggi, a distanza di 2 mesi dalla mia partenza, mi sono ambientato bene a Piacenza, ho conosciuto tanta gente fantastica che è riuscita a farmi sentire a casa e a passare la tristezza e la malinconia iniziali. Tuttavia, porto sempre nel cuore la mia confraternita, i miei compagni di viaggio del corso e le altre splendide persone che ho incontrato fra le “mura” della Chiesa del Carmine. Per sentirli sempre vicini ho portato con me l’Abitino della Vergine, che mi è stato dato all’inizio del corso di noviziato, mettendolo sopra il letto, insieme al Crocifisso. 

E a tutti quelli che, entrando in camera, mi chiedono cosa sia comincio a ruota libera a parlare della confraternita e dei Riti della Settimana Santa a Taranto, tanto che quasi tutti i miei amici sanno oramai cosa significhi posta, nazzecare o sdanghe. Faccio, inoltre, di tutto per non perdermi neanche un evento, una messa o una processione grazie all’ausilio di questi potenti mezzi tecnologici, per sentirmi in qualche modo lì presente in mezzo agli altri miei fratelli.


Quando, poi, un giorno leggendo un articolo su Nazzecanne avevo appreso, con grande gioia, che anche i confratelli risiedenti fuori da Taranto potevano contribuire, senza esitare un attimo, una volta finiti i primi esami, ho voluto assolutamente scrivere questo per sentire ancora una volta un legame con la mia famiglia e i miei fratelli di Scapolare, col pensiero rivolto a quando potrò indossare nuovamente l’abito ed essere operante nell’ambiente di cui, nonostante tutto, sento ancora fortissima nostalgia.