venerdì 25 novembre 2016

Valeria Malknecht

P.e.t.t.o.l.e.
P come Pastorale.
E come Essenza.
T come Taranto e come Tradizione.
L come Legame.
O come Onorare.
E come “Enonbastanomai”

Derivazione: Tarantina d.o.p. (denominazione origine protetta).

Colore: dorato.

Forma e dimensioni: le più disparate, come “avengn avengn”, a libera interpretazione.

Calorie per porzione: non pervenute (proprio il 22 novmebre dovete mettervi a dieta?)

Ingredienti: acqua, farina, sale, zucchero, lievito.

Metodo di cottura: frittura ad immersione (ripeto, proprio il 22 novembre dovete mettervi a dieta?).

Segni collaterali: i vostri vestiti “odoreranno” di fritto fino al 7 dicembre (giusto in tempo per il secondo ufficiale round, e così via fino a Natale: ma non preoccupatevi, anche i vestiti degli altri sapranno di fritto).

Controindicazioni: possono creare, anzi creano, dipendenza.

Indicazioni d’uso: vanno mangiate appena fatte, calde e fragranti, possibilmente in compagnia (a tal proposito, fate attenzione perché, se siete in tanti, finiranno in fretta).

Metodo di somministrazione: una dietro l’altra “come fossero ciliegie”, decisamente “inzuppate” nello zucchero.

Avvertenze speciali: si adattano a qualsiasi bevanda e possono essere consumate in qualsiasi momento della giornata del 22 novembre: a colazione con caffè o latte; a pranzo o a cena con vino rosso o bianco, acqua, coca cola, sprite, aranciata, birra Raffo; per merenda con un thè o un succo di frutta;per l’aperitivo con uno spritz).

Precauzioni d’uso: attenti alle quantità.

Segni particolari: BUONISSIME!

Paesi dove vengono preparate e consumate: qualunque parte del mondo in cui vi sia un tarantino.

Per chi non l’avesse capito, parliamo di pettole. Le nostre pettole. Quelle senza acciughe, senza pomodorini, senza alcuna aggiunta se non quella dello zucchero in cui intingerle dopo averle fritte. Perché noi puritani delle pettole le mangiamo così, semplici semplici.

È Santa Cecilia e la tradizione va onorata.

Farina, acqua, sale, lievito e zucchero: si impasta tutto fino a che non si crea un composto molle e appiccicoso che si lascia lievitare durante la notte.


All’alba, mentre fuori dalla finestra le bande cittadine intonano le prime pastorali, sarà il momento di friggerle.

Il procedimento per formare le pettole è semplice: si lascia scivolare nell’olio bollente una cucchiaiata di impasto e così via.

Come per magia, si formeranno delle piccole palline di pasta, gonfie e dorate, anche se alcune avranno le forme più strane e delle piccole code.


Le strade si riempiono di musica e le dolci note delle pastorali si accompagnano all’odore delle pettole come se fosse naturale che questi due elementi, la musica e l’odore del fritto, si sposino così bene.


La tradizione vuole che le pettole siano nate dalla sbadataggine e dall’errore di una massaia che fece lievitare troppo l’impasto del pane: invece di ottenere un composto consistente, ne ottenne uno diverso che trasformò in focaccia da friggere (la “pitta”). Da qui il nome di “pettole”.

Vera o non vera che sia questa piccola storia, la tradizione è in realtà quella che facciamo rivivere noi ogni anno in questo giorno, ciascuno a modo nostro, proprio attraverso la preparazione di questo particolare cibo.

È il calore della famiglia, la condivisione di un momento che risveglia ricordi. È il rituale di chi le cucina in questo giorno anche se a tanti chilometri di distanza, perché nulla può spezzare il legame con quei gesti che ci fanno sentire sempre a casa.

È la ricetta o l’insegnamento delle nostre nonne e delle nostre mamme.

È la bellezza di trasmettere qualcosa di noi e di quello che siamo stati ai nostri figli.

E allora, ecco che le pettole diventano di più che un semplice impasto da friggere: sono un modo per amare, per sentirsi a casa, per ricordare e per tramandare.

Chi l’avrebbe mai detto che un semplice impasto da friggere nell’olio potesse significare così tanto, vero?