mercoledì 10 febbraio 2016

Uno degli articoli, a mio parere, più belli di sempre sul Nazzecanne, volutamente non ho ritenuto aggiungere foto, è un racconto che va "mangiato" con gli occhi, un racconto di vita vera per cui siamo grati non solo a Claudio e sua moglie ma anche a tutti coloro che hanno permesso di far diventare vita i fatti che sono raccontati in questo articolo.
Buona lettura, nel vero senso della parola. 
S.P. 

Claudio Capraro 
Tra fine gennaio e l’inizio di febbraio inevitabilmente vengo travolto da un vortice di ricordi.

Il ricordo felice che riaffiora nei “giorni della merla” risale a pochi anni fa e ad un evento particolare, l’essere diventato genitore, meglio ancora essere diventato genitore adottivo.

In tutto il percorso che ha portato me e mia moglie prima a desiderare un figlio, poi a cercarlo in maniera sempre più insistita, combattendo con le proprie coscienze e con i dettami di Santa Madre Chiesa a proposito di procedure lecite e non lecite per poter avere un figlio, chi è stata sempre al nostro fianco è Lei, la Madonna del Carmine. Le discussioni, a volte anche forti, con il nostro parroco, i dubbi di ognuno di noi e quelli vissuti insieme, gli esperimenti di qualche medico – stregone. Sempre in ciascuna di queste occasione a Lei mi sono rivolto, a Lei ho chiesto consiglio.

E così quando siamo arrivati alla decisione di intraprendere un percorso genitoriale differente, sempre nelle Sue mani abbiamo affidato le nostre speranze ed i nostri sogni. E Lei ci è stata sempre accanto.

Le pratiche lunghe e a volte difficoltose, il tempo che passava senza che vedessimo un risultato, le continue domande delle persone che se anche fatte a fin di bene, in quei momenti a poco ti servono. Ognuno di noi aveva immaginato il figlio che desiderava. Nel disegno che mi ero fatto nel mio cuore era un maschietto al quale avrei trasmesso l’amore per il Taranto calcio e la fede e la passione per le nostre tradizioni. In una scatola avevo preparato una maglia rossoblù e l’abitino della Beata Vergine del Monte Carmelo. Quando fummo chiamati per l’abbinamento e ci furono consegnati il verbale di ritrovamento, le cartelle mediche e tutta l’altra documentazione, ma soprattutto la fotografia di Maria Rosaria in braccio alla Ministra Generale delle Suore Stimmatine, della quale porta il nome, nostra figlia aveva finalmente un nome ed un volto.

Durante il rientro a casa pensai, tra le mille altre cose, che la maglietta avrei dovuta sostituirla con una bambola mentre l’abitino ovviamente poteva restare al suo posto. Tanto tempo ancora ci voleva prima di poter partire per il cuore dell’Africa, per la Repubblica Democratica del Congo, ma quell’abitino sarebbe venuto con noi, avrebbe preso l’aereo insieme a noi.

E così fu; da Brindisi a Roma e poi a Addis Abeba e ancora fino a Kinshasa lo scapolare che avevo ricevuto al termine della processione della titolare di qualche anno prima era arrivato in Africa. I giorni necessari per le pratiche con l’ambasciata, il dover trovare posto sull’aereo del volo interno, ci facevano passare i giorni interminabili rinchiusi nell’istituto delle Stimmatine. Con luce e acqua solo per poche ore al giorno, con il segnale del telefono molto dispettoso e con il wi-fi che ogni tanto riuscivamo a “rubare” da un attiguo istituto di missionari, le ore passavano lente e noiose. Il pomeriggio dopo il pisolino, ci riunivamo con le altre due famiglie con le quali eravamo partiti, per recitare il Santo Rosario, ma non riuscivo a farmi una ragione dei tempi dell’Africa molto, ma molto lenti e sarei voluto partire subito per andare da nostra figlia. Invece i giorni passavano e a Lei chiedevo il perché. Poi finalmente riuscimmo a trovare posto sull’aereo per Mbuji Mayi e Lei mi diede la risposta. Avrei conosciuto Maria Rosaria il 31 di gennaio, il giorno in cui tredici anni prima avevo perso mio padre. Una stessa data per due avvenimenti che hanno segnato profondamente la mia vita.

E lo scapolare ancora una volta prese il volo. Su un aereo di una compagnia che non rispettava nessuno dei canoni di sicurezza previsti qui in occidente, ma con quella Compagna al nostro fianco non avevamo nulla da temere.

Ci incontrammo in un grande sterrato, il parcheggio dell’aeroporto. Il fatto di avere la pelle bianca è come il miele per le mosche, tutti ti circondano per chiederti qualcosa. Ci facevamo strada tra mendicanti, bimbi nudi, nugoli di mosche. Lo scirocco ci faceva sudare, ma forse di più era l’emozione. Il primo incontro fu con gli occhi. All’interno di un fuoristrada una bimba con i palmi delle mani aperti poggiati sul finestrino guardava nella nostra direzione. Spiccava per il color rosso del suo giubbino, per la testa con una complicata acconciatura e per due grandi orecchini di ferro con i quali le avevano bucato i lobi delle orecchie.

Non fu facile il primo incontro, ci volle più di qualche minuto per familiarizzare, poi pian piano la situazione si normalizzò e tanto io quanto mia moglie potemmo tirare un sospiro di sollievo.

Dei quattro giorni passati tra Mbuji Mayi dove Maria Rosaria era stata cresciuta sempre dalle suore Stimmatine e Mwene Ditu dove probabilmente era nata ed aveva subito il suo prima abbandono (nei pressi dell’orfanotrofio dove venne accolta per poi essere trasferita dalla suore subendo un secondo abbandono e soprattutto in previsione del terzo che l’avrebbe vista tornare in Italia insieme a noi), il ricordo non è piacevolissimo e non solo per le condizioni di vita notevolmente più dure rispetto a quelle della capitale Kinshasa.

La notte dormivamo in tre in un letto da una piazza e mezza; anzi eravamo in quattro perché quello scapolare era sempre con noi. E con noi rimase, nella nostra stanzetta una volta tornati a Kinshasa dove ci ricongiungemmo con le altre due famiglie e con i loro bimbi. Ricominciarono le lunghe giornate fatte di attese, di visti, di ambasciate e di coincidenze aeree che non coincidevano. Ma per noi furono giorni ancora più movimentati. Maria Rosaria si ammalò di malaria. Li è normale, ma la nostra bambina aveva quasi 40 di febbre e noi eravamo terrorizzati. Le suore, davvero degli angeli a cui sempre andranno i nostri ringraziamenti e le nostre preghiere, ci portarono in un ospedale pediatrico. Ecco adesso provate ad immaginare il peggio possibile; ancora di più. Fatto? Siete ancora lontani, ma tanto. Cosa potesse essere quell’ospedale è difficile da raccontare, ma ci passammo quattro giorni e tre notti accanto a Maria Rosaria e quando per questioni di opportunità non era il caso che restassimo noi si offriva Suor Berthe; ci davamo il cambio. Chi non si è mai spostata dal quella brandina fu Lei che rimase lì sempre. Quell’abitino non si mosse di li.

Finalmente con mille difficoltà furono pronti i documenti e con tantissime altre difficoltà riuscimmo a comunicare con l’Italia per prenotare il viaggio di ritorno. Eravamo partiti in due più lo Scapolare, ritornavamo in tre sempre con lo Scapolare. Il controllo documenti e bagagli all’aeroporto richiese tante ore, molta pazienza, qualche mancia e la voce grossa dei nostri accompagnatori suore e avvocato nei confronti dei militari. Dalle nove del mattino riuscimmo a salire a bordo all’una. L’abitino ritornava a volare.

Atterrammo a Fiumicino alle 5 di lunedì mattina 11 febbraio, memoria della Madonna di Lourdes. Ci accolsero i poliziotti per le pratiche burocratiche e lo fecero con cornetti e brioches. L’Italia era tagliata in due dalla neve; gli aerei per il nord non partivano. Sulla capitale diluviava. Dei parenti che erano a Roma per altri motivi ci telefonarono; “Partiamo adesso da Cinecittà veniamo a trovarvi in aeroporto”. Giusto qualche minuto di visita, il tempo di un caffè, ma una grande carezza per i nostri cuori infreddoliti. In attesa del volo per Bari, guardavamo le grandi tv che trasmettevano notiziari a ciclo continuo. Senza l’audio potevi leggere i titoli “sottopancia”; ad un certo punto leggemmo la notizia delle dimissioni del Santo Padre Benedetto XVI. Credemmo di aver visto male e aspettammo che ripassasse, era vero. Non si conoscevano i motivi. E nella sala d’aspetto davanti ad una grande vetrata recitammo l’ultimo Rosario prima di tornare a casa.

Poi l’arrivo a Taranto. La sera prima nella chiesa del Carmine era cominciata la Adorazione Eucaristica delle Quarantore. Avevo ricevuto dei messaggi, mi dicevano che il mio viaggio e quello della mia famiglia era stato menzionato tra le intenzioni di preghiera. Tornai intenzionato a vestirmi per un turno di adorazione, ma non ce la feci. Il rientro non fu semplicissimo.

Prima di andare a letto la prima sera in tre, dopo tanti anni in due, appesi sulla culletta di Maria Rosaria quello scapolare che finalmente dopo tanto viaggiare era tornato a casa. Poi quando dalla culla è passata al lettino della sua stanzetta l’abitino l’ha seguita e ancora oggi è appeso sulla testiera con una corona del Rosario.

Quanti chilometri ha percorso quello Scapolare; quanto è stato utile averlo accanto; quanto è grande l’amore della Mamma per le mamme, per i genitori, per quelli che i figli li hanno e per quelli che li desiderano, ma sono costretti a lottare.

A Maria, alla Vergine del Carmelo abbiamo affidato la nostra famiglia e nostra figlia e quando mi fa perdere la pazienza e avrei voglia di darle una sculacciata, mi limito ad alzare la voce tenendo ferme le mani. Una volta calmo quando iniziamo a ragionare, a spiegarle dove e perché ha sbagliato, Maria Rosaria mi accusa di gridare troppo e io le rispondo che avrei voluto alzare le mani, ma che qualcuno mi ha fermato. Lei mi sorride e mi risponde: "lo so, è stata la Madonna del Carmine”.