lunedì 11 aprile 2016

Una favola di Luciachiara 
S.P.

Luciachiara Palumbo

Su una vecchia sedia di legno, accanto ad un piccolo letto, in una semplice stanza ero adagiato con immensa cura e nonostante non avessi né occhi né bocca osservavo attentamente ciò che succedeva attorno a me e mi esprimevo per mezzo della bellezza che possedevo. 

Nonostante gli anni trascorsi dal mio acquisto, i colori splendevano alla luce del sole e tutto questo era dovuto a chi giorno dopo giorno mi spazzolava e mi puliva. 

Non ero mai uscito da quella casa, nessuno mai mi aveva indossato… Molto tempo prima qualcuno mi aveva realizzato per puro amore verso Taranto e mi aveva abbandonato lì, su quella sedia antica incapace di mostrare il mio vero valore. 

Tanta gente entrava nella camera da letto e si domandava il senso di un abito così particolare lasciato lì a fare la polvere e tanta gente ancora consigliava alla mia anziana padrona di disfarsene. Ma lei che era solita con me parlare costantemente non ebbe mai il coraggio di darmi via.

Sorrideva piena di gioia quando qualche bambino sfiorava le medaglie, quando indossava il mio cappello e imitava quello che sarebbe dovuto essere il mio passo… Nel suo cuore si sarebbe nascosto per sempre il desiderio di diventare mamma e di regalare a qualcuno quell’ammasso di stoffa colorata perché finalmente potesse prendere vita.

 Così in un giorno freddo di febbraio la mia amata vecchina andò via per sempre e piano piano davvero sulla superficie di tutte le mie parti si depositò uno strato alto di polvere. Venni preso e brutalmente gettato in uno scatolone diretto ad un’organizzazione per la cura dei senzatetto. 

Ero solo e al buio, sballottolato di qua e di là in cerca di una collocazione finale. Un uomo coi baffi, volontario dell’associazione si rese conto che non sarei servito a nulla in mano a qualcuno che non aveva neanche una casa per cui mi prese con sé e mi espose nella vetrina del suo negozio in pieno centro città. Il panna della mia mozzetta ritornò a brillare al sole e ad illuminare il buio della sera tarantina. 

Non ero più tanto inutile come sulla sedia, avevo la possibilità di mostrare la mia particolare bellezza a molte più persone. I nonni portavano appositamente i nipotini davanti a me e davano loro tantissime spiegazioni, evidentemente in casa avevano avuto qualche mio simile. Ero felice sì… ma non pienamente.

 Ero vuoto e il manichino che mi indossava non parlava neanche con me. Anche lui non aveva la bocca e non poteva esprimersi. Una mattina entrò nel negozio un ragazzo che poteva avere 16-17 anni. “Buongiorno”, esordì, “lei è il proprietario dell’abito appeso in vetrina?”. Il mio padrone fece cenno col capo. “Volevo chiederle una cosa insolita… Sa, ho da diversi anni il sogno di diventare confratello ma non posso permettermi di comprare l’abito. 

Pochi giorni fa stavo sentendo parlare della storia di questo antico abito e allora ho pensato che fosse perfetto per me… Se lei volesse donarmelo…”. Arturo, il negoziante, lo guardò un po’ perplesso, meravigliato per la strana richiesta ma in ogni caso fu ben lieto di donarmi.

Da allora il mio tessuto prese vita… Ero un’anima senza corpo che vagava in cerca della sua identità…