venerdì 1 aprile 2016

Valeria Malknecht

La processione dei Sacri Misteri quest’anno è tornata nel borgo umbertino, ma in realtà è come se queste nostre strade del centro non ne avessero mai accusato l’assenza.
Ogni anno il rituale sembra lo stesso: l’organizzazione, gli orari, la gente in piazza, le musiche, i gesti.

Sembra.

Tutti sappiamo che non è così. Per quanto alcuni si sforzino di pensare che, in fin dei conti, ogni anno accada più o meno sempre la stessa cosa, la verità è che “quella stessa cosa” cambia continuamente perché, da un anno all’altro, cambiamo noi, cambiano le nostre vite, cambiano le nostre storie.
Muta, quindi, il nostro approccio con i Riti ed il nostro modo di viverli.
Ecco perché le nostre Tradizioni non sono mai scontate.


I pensieri sono quelli, sempre uguali, di chi osserva l’uscita della prima posta per il pellegrinaggio del Giovedì Santo – “…anche quest’anno sono qui…” –, o di chi, emozionato, guarda con il naso all’insù  l’Addolorata uscire da San Domenico – “…Mamma, quanto sei bella…” – e di chi, all’alba del Sabato Santo, pare non voglia rassegnarsi a vedere quel portone chiudersi – “…tutto è compiuto, speriamo che anche il prossimo anno sia per me Settimana Santa…”.

E, allo stesso tempo, i pensieri sono quelli, sempre diversi, di chi l’anno prossimo di questi tempi sarà genitore o di chi, rispetto all’anno prima, lo è diventato e porta il proprio figlio a vedere quegli strani incappucciati; di chi è guarito da un brutto male, di chi ricorda i propri cari che non ci sono più e che vorrebbe fossero ancora qui.

L’unicità dei nostri Riti è espressione dell’unicità delle persone che li fanno e li sanno vivere e che ogni anno si lasciano e ci lasciano emozionare, interpretandoli ciascuno a proprio modo, secondo la propria storia.
E non parlo necessariamente di confratelli e consorelle, o di fedeli e credenti: sarebbe quasi troppo scontato chiedere ad un confratello cosa gli sia rimasto dentro di questi giorni.
Mi riferisco alle persone, in generale.


A chi, passeggiando per le vie del centro in un classico venerdì sera modaiolo, si lascia catturare dal volto di Gesù sotto la croce e, prima ancora che se ne accorga, inizia un silenzioso dialogo con Lui. Non esiste più la folla, non c’è più alcun vociare…tutto il resto può attendere… “…dolce sentire come nel mio cuore, ora umilmente, sta nascendo amore…”.
A chi si sente solo e cerca la forza di superare la propria solitudine, i propri problemi, trovando conforto nello sguardo di Maria che, per quanto rassegnato per la perdita del Figlio, conserva sempre la speranza di vederlo risorto.
A chi, a proprio modo, riesce a risollevarsi da terra e a trovare un po’ di quella forza interiore che lo aiuti per andare avanti “…dolce capire che non son più solo ma che son parte di una immensa vita, che generosa risplende intorno a me…”.
A chi pensa che la vita non abbia più niente da donargli e che non ci sia più nulla da ricevere e che, all’improvviso, si riscopre grato.

A chi è felice e vuole semplicemente ringraziare “…dono di Lui, del suo immenso amore…”.
La Settimana Santa è molto di più dell’espressione di un Rito.

È la personificazione della fragilità umana, dell’imperfezione dell’uomo, della sua capacità di chiedere perdono e della sua umiltà nel riceverlo.
È una forma di amore, è un dono, è vivere e far vivere anche attraverso un Rito.
È il punto di incontro di tante diversità.

Sotto le sdanghe e dietro i cappucci ci sono uomini forti e insieme fragili, gli stessi che si affollano per le strade dietro le transenne, all’angolo di un bar, davanti ad una vetrina.

Diversi nelle storie di vita che raccontano e di cui sono l’espressione, ma simili perché accomunati dagli stessi errori, dagli stessi fallimenti e dalle stesse mancanze.

Ph. Portodimareter