venerdì 4 aprile 2014


Claudio Capraro: "Otto giorni" 

GIOVEDI'

A Paolo sembrava che nel letto qualcuno avesse messo dei carboni ardenti. Non ce la faceva proprio a rimanere a godere del caldo delle coperte, eppure quella mattina era in ferie, sarebbe potuto rimanere a letto ancora un po’. Niente, non ci fu verso.

Passò parte della mattinata a gironzolare per casa, a scrutare il cielo e preparare pian piano la valigia con l’abito da confratello.

Già dalla sera prima era tutto pronto: Giulia aveva stirato a dovere tutto quanto, bisognava soltanto aspettare a piegare e metterli in valigia in modo che si sgualcissero il meno possibile.

Alle undici e mezza non ce la fece più, uscì e andò a farsi una passeggiata in centro. Quella mattina la casa gli sembrava un carcere; aveva bisogno di vedere gente, di sentire l’aria sulla faccia, di respirare.

Comprò il Corriere, ma lo sfogliò distrattamente. Non riusciva a concentrarsi. Arrivò in centro, fece la prima vasca e fece inversione. Doveva aspettare l’una per passare a prendere Giulia che finiva di lavorare e poi tornare velocemente a casa per pranzare. Era ancora presto. Arrivato all’angolo di via Di Palma con via Duca degli Abruzzi tornò indietro. Arrivò in piazza Carmine: i palchi montati sui tubi Innocenti per permettere agli operatori tv di riprendere l’uscita della Processione dei Misteri erano terminati; alcuni operai stavano ammassando le transenne che il giorno successivo avrebbero definito il perimetro della piazza ed i primi metri di via D’Aquino. Sui pali della luce erano state disposte le staffe con gli anelli all’interno dei quali sarebbero stati infilati i cordoni che avrebbero delimitato le zone riservate al pubblico dallo spazio per il passaggio della processione.

Il solito angolo era affollato. Paolo salutò distrattamente qualcuno e si allungò sino a piazza Archita. C’era una bancarella che vendeva pupazzi di ceramica di dimensioni diverse. C’era la possibilità di comporre interamente le due processioni: quella dell’Addolorata e quella dei Misteri; c’erano poste di perdune inginocchiati ed in piedi e poi anche se fuori periodo, ma evidentemente sempre richieste, le statuine color argento di San Cataldo e quelle dei S.S. Medici, con i loro abiti rossi e verdi.

Arrivò all’angolo con via Cavour e all’improvviso cominciò a piovigginare. Sottile ma intensa. Paolo pensò bene di fare inversione e tornare indietro. 

Accelerò e calcò la coppola, fedele compagna, sulla testa per ripararsi meglio.

La pioggia aumentò di intensità, ma appena il tempo di passare piazza Immacolata, fare qualche altro isolato e all’altezza di via Cavallotti già non pioveva più.

Pian piano la gente per strada chiuse gli ombrelli che prontamente aveva aperto e quasi contemporaneamente tutti quanti guardarono in alto. Addirittura c’era qualche raggio di sole che filtrava dalla nubi.

Paolo passò a prendere Giulia, che per quel giorno aveva terminato il suo lavoro part-time e tornarono velocemente a casa, il tempo di mangiare qualcosa e poi mentre lei sistemava la cucina, lui si sdraiò un momento sul divano, prima di uscire.

Ai telegiornali delle emittenti locali, i cronisti erano in collegamento in diretta chi dalla chiesa di San Domenico, chi da piazza Giovanni XXIII e Paolo non ce la faceva più. Ogni minuto guardava l’orologio. Dopo circa un quarto d’ora non resistette più. Terminò di preparare il borsone, infilò il giaccone e dopo aver concordato quando e come si sarebbero incontrati con Giulia nel corso della serata prese la strada per la chiesa del Carmine.

In giro c’era poche auto e poche persone, ma man mano che si avvicinava al centro, la gente aumentava e aumentavano quelli che come lui camminavano con una valigia o un borsone in mano ed un portabiti color crema appoggiato sulle spalle. Non ti potevi sbagliare, erano i confratelli del Carmine.

Aveva le ali ai piedi. Mancava un quarto d’ora alle tre quando arrivò in piazza della Vittoria. Fece prima un salto dal lato di via Giovinazzi da dove sarebbero uscite le poste di “campagna”. La gente era tanta: mamme con i carrozzini, nonni con i nipoti, famiglie intere, gente che era li di corsa e che doveva tornare quanto prima in ufficio. Salutò qualche conoscente e passò dall’altro lato, in piazza Carmine. Anche qui la gente era tanta, sicuramente di più che dall’altra parte. Molti, soprattutto i più giovani, si erano arrampicati sui palchi delle tv da dove la visuale era certamente migliore.

Paolo si guardava intorno alla ricerca soprattutto del suo compagno Franco che ancora non vedeva. Anche qui incontrò più di qualche volto noto. Fu fermato da conoscenti che avendolo visto con l’abito appresso, gli chiesero informazioni su quale posta avesse preso. Rivide tante facce che nel corso dell’anno non vedeva. Erano i tarantini che vivevano e lavorano fuori città, al nord o spesso anche all’estero, ma che in quei giorni, dovunque si trovassero, avevano un solo obiettivo: tornare a Taranto. Non potevano mancare. Il richiamo è fortissimo. Ed era bello rivedere quelle facce: compagni di scuola, vecchi avversari di calcetto, vecchi amori segreti ai quali non si era mai trovato il coraggio di confessare i propri sentimenti.

Poi arrivarono le tre. Il portone della chiesa del Carmine si aprì, calò il silenzio, l’aria sembrò fermarsi, gli occhi di tutti volgevano in un’unica direzione: ed ecco la prima posta. La prima posta di “città”. La prima posta che avrebbe effettuato il pellegrinaggio agli altari della reposizione della città vecchia.

In realtà nessuno realmente li chiamava così. Per i tarantini quelli che correttamente si chiamano “altari della reposizione”, dove in quei giorni viene esposto il Santissimo Sacramento, erano, restano e saranno sempre i “Sepolcri”. Il nome sicuramente non sarà corretto, ma nulla e nessuno riuscirà sostituire questa espressione non nella mente, bensì nel cuore dei tarantini.

I due confratelli sostarono per circa un minuto sotto l’arco del portale, il cappuccio sul volto ed il cappello calato sulle spalle, dondolandosi leggermente. Poi si affiancarono due addetti della confraternita che sistemarono i cappelli sulle teste dei due perdoni i quali avanzarono pian piano scendendo i due gradini ed arrivando sul marciapiedi antistante la chiesa.

I cameraman ed i fotografi si facevano largo tra la folla, tanti erano i bimbi a cavalcioni sulle spalle dei papà. C’era stato anche qualcuno che quando aveva visto aprirsi il portone aveva provato ad accennare un applauso, ma per fortuna era stato subito interrotto e zittito dal resto dei presenti.

Man mano i due avanzarono tra la folla che si apriva lentamente davanti a loro. Dopo un po’ il portone si riaprì ed apparve la seconda posta. A quel punto Paolo, che aspettava di vedere il suo compagno, si spostò su via Giovinazzi. Qui era già uscita la seconda posta, si erano fatte le tre e un quarto quando finalmente vide Franco che era dall’altro lato. Non potendosi incontrare visto il numero di persone che c’era tra i due, si fecero segno di entrare. Chiedendo permesso e facendosi largo tra la folla arrivarono al portoncino della sagrestia, dove un responsabile della Confraternita li fece passare.

Dopo veloci saluti in segreteria i due salirono a cambiarsi nel salone del terzo piano, quello più grande. C’era già un bel po’ di gente: chi si vestiva, chi aiutava. Paolo e Franco si sedettero una di fronte all’altro e sistemarono i rispettivi borsoni sulle sedie ancora vuote.

Come previsto la prima cosa che Paolo fece fu quella di “mettere i piedi a terra”; indossando ancora il giaccone, si sedette e si sfilò la scarpa sinistra, poi la desta e poi ancora il calzino che portava al piede sinistro e quello che portava al destro. I suoi piedi toccarono uno dopo l’altro il pavimento di mattoni gelidi. Un brivido percorse le sue gambe fino al bacino. Fu un momento, poi finì. Tutto lì; tutto molto veloce.

Doveva dare un momento ai piedi per abituarsi e poi cominciare a vestirsi: era stato il primo consiglio che aveva avuto da un confratello anziano la prima volta che si era “vestito”. Fosse stato per lui, quella prima volta, avrebbe fatto sicuramente il contrario, si sarebbe sfilato le scarpe alla fine. In quel modo oltre a non dare ai piedi la possibilità di familiarizzare subito con il terreno avrebbe anche rischiato di sporcare il camice con le scarpe.

Si spogliò completamente e poi infilò il pantalone della tuta ed il maglione di lana. Indossò il camice, lo sistemò e tirò tutto il cordoncino in vita, fece il doppio nodo e poi pazientemente sistemò il camice come si conviene: liscio sul davanti e con le pieghe sul lato posteriore. Lui e Franco procedevano quasi contemporaneamente. Mentre loro proseguivano, ogni tanto saliva qualche addetto della confraternita a chiamare chi doveva uscire di li a poco: “Quinta posta città nuova!”. “Dove sta la quinta posta città nuova?”

Poi lo scapolare: Decor davanti per Paolo, mentre per Franco il contrario, Carmeli. Le spalline del camice a fermare i nastri dello scapolare, poi la cinta con la cinghia sul lato sinistro. Paolo nell’eccitazione prese la corona del Rosario, poi la lasciò: quel giorno non andava attaccata alla cintura. Franco gli chiese di legargli i laccetti laterali dello scapolare e di verificare che fosse posto ad altezza uguale tanto davanti quanto da dietro.

Paolo sbottonò tutti i bottoni della mozzetta e l’appoggiò sulle spalle, dopodiché ricominciò ad abbottonarli nuovamente. Nel frattempo era stata chiamata la nona posta città vecchia e Franco sollecitò Paolo a sbrigarsi, ma non ce ne era bisogno.

Per il cappello Paolo chiese aiuto ad uno dei tanti presenti affinché verificasse che cadesse bene sulle spalle, poi lo allacciò bene alla cinta con due nodi saldi; il vento che avrebbero trovato sul ponte girevole rischiava di farlo volare via. Infilò il cappuccio e lo alzò sulla testa, mise i guanti e chiese a Franco di allacciargli la corona del Rosario sull’avambraccio sinistro, lasciando pendere la parte finale di questa con le medaglie ed il crocifisso. Era pronto ed anche il suo compagno era pronto. Senza aspettare di essere chiamati, decisero di scendere giù al primo piano.

Entrarono nella saletta dove la prima cosa che videro fu la Croce dei Misteri esposta al centro con accanto due candelabri. Si segnarono e poi chiesero al segretario, che seduto dietro la scrivania doveva combattere con dieci richieste contemporaneamente, a quale posta si fosse arrivati per la città vecchia. Bisognava attendere un po’. In chiesa stava per cominciare la “Messa in Coena Domini”, loro sarebbero usciti dalla cappellina laterale subito dopo l’inizio della funzione. Passarono a prendere i bordoni dalla persona incaricata e provarono a sistemarsi uno accanto all’altro come avrebbero poi fatto in strada

Finalmente arrivò il loro turno: il segretario li chiamò, scrisse i loro nomi ed il numero della posta su un foglietto di block notes che infilò nel cappuccio della mozzetta di Paolo. I due si diressero davanti alla croce dei Misteri, fermi per qualche istante in meditazione, fecero il saluto incrociando le mazze e le corone del Rosario e furono pronti per andare.

Uscendo dalla saletta e scendendo le scale che li avrebbero portati in chiesa furono salutati e ricevettero gli auguri per un buon pellegrinaggio da tante persone. Arrivarono nella cappellina, l’odore di incenso era ancora intenso, nonostante la funzione fosse cominciata già da un po’. Paolo, nonostante avesse già partecipato a cinque pellegrinaggi ed una processione dei Misteri, era emozionato come un novizio, non stava più nella pelle. 

Furono portati davanti alla porta ancora chiusa e gli furono sistemati i cappucci sugli occhi; qualche istante per far combaciare le pupille con i forellini, un ultima sistemata alla mozzetta e poi finalmente venne aperta la porta. Franco e Paolo rimasero fermi giusto un istante, poi gli furono posti i cappelli in testa e ricevettero il via. Non si poteva avere il tempo concesso alla prima posta, dopo di loro c’era ancora tanta gente che sarebbe dovuta uscire. Avanzarono fuori dalla chiesa, sul marciapiedi e poi ancora sull’asfalto. Il passaggio dal gelo del marmo della chiesa al caldo che l’asfalto aveva accumulato, nonostante la pioggerella del mattino era una delizia. I raggi del sole erano stati catturati dal bitume. Ancora qualche metro e poi sarebbero arrivati sulle chianche di pietra bianca che non sarebbero state altrettanto calde.

Paolo e Franco ci misero circa un minuto a trovare la posizione giusta facendo combaciare gli omeri. Nel frattempo, attraverso i fori del cappuccio Paolo si guardava intorno alla ricerca di qualche faccia amica. A piccoli passi i due avanzavano, ma venivano sollecitati ad accelerare un po’, le poste che venivano dopo premevano per uscire anche loro.

Arrivati in direzione del portale della chiesa del Carmine, si avvicinò ai due perdune una mamma con due bimbi, un maschietto di circa tre anni ed una femminuccia più piccola. Paolo non riusciva a sentire cosa la mamma dicesse ai due piccoli, ma intuiva che i due erano spaventati dalle figure incappucciate e non volevano saperne di avvicinarsi. In realtà la femminuccia era più coraggiosa del fratellino e tirava sua madre verso la posta, mentre contemporaneamente la mamma doveva tirare il piccolo meno coraggioso della sorella.

Le norme e le disposizioni vietano ai confratelli durante il pellegrinaggio di interagire in qualunque modo con chi non fosse autorizzato dalla confraternita, ma Paolo questa norma non la teneva molto in considerazione quando si trattava di bambini. Come faceva sempre in quei casi, tenendo il bordone con la mano ferma sull’anello posto a metà per evitare che la stessa scivolasse, mosse leggermente tre dita: mignolo, anulare e medio a voler salutare i piccoli amici. Come per miracolo quel leggero movimento delle dita aveva sempre lo stesso effetto: far cessare di colpo la paura.

La bimba non aspettava altro e iniziò a salutare anche lei:

“Ciao perdono!”

Il fratellino invece timidamente si avvicinò, vincendo gli ultimi timori.

Paolo ricordò quando era piccolo ed aveva le stesse paure. I suoi gli raccontavano che per non guardare quelle figure incappucciate si calava il cappellino sugli occhi. Lui, invece, ricordava che una volta sua nonna materna aveva provato a chiedere a due perdoni di scoprirsi il volto per mostrare al nipotino che si trattava di persone in carne ed ossa e non di fantasmi. I due, ovviamente risposero di no, ma per Paolo il fatto di aver sentito una voce umana venire da sotto il cappuccio fu sufficiente, anche perché quella voce era tale e quale a quella di Cilluzzo, il pescatore di fiducia dal quale suo nonno andava a comprare il pesce.

Se le tradizioni sopravvivono da tanti secoli, pensava Paolo, è proprio perché ci si affeziona a queste fin da bambini. Ci sono tanti tarantini che non amano i riti, è inutile negarlo, e secondo lui la causa di ciò risaliva a quando questi erano stati piccoli, al fatto che nessuno gli avesse trasmesso questo amore.

Accompagnato da questi pensieri e guardandosi intorno i due erano già arrivati all’angolo con via Cavour dove, come ad ogni incrocio, fu fatto fermare il traffico e furono fatti passare. Da quel punto le chianche di pietra bianca erano sostituite dai sampietrini: bisognava registrare il passo a quella nuova superficie.

Era tanta la gente che si avvicinava alla ricerca di qualche amico o parente confratello che partecipava anche lui al pellegrinaggio e chiedeva a Franco o a Paolo quale coppia fossero in modo da potersi regolare per poter trovare la persona cercata.

Paolo poi vide sua madre. Nonostante tutte le incomprensioni, sapeva che sarebbe venuta, sia pure a fare un salto veloce. Muoversi dall’estrema periferia della città, con l’autobus e per lei che non usciva di casa se non per casi di estrema necessità era comunque uno sforzo e Paolo lo apprezzava.

Quando la vide, invece di fare come lui le aveva suggerito e cioè di avvicinarsi e chiedere quale posta fossero, lei era concentrata a guardare i piedi dei due perdoni. Non si sbagliava, si avvicinò è disse:

“Paolo? Sei tu?”
“Si.”

Lo accompagnò per un centinaio di metri sino all’angolo di via Margherita con via Matteotti e poi lo salutò. La sua “libera uscita” era durata anche troppo, Paolo se ne rendeva conto e non insistette affinché si fermasse un altro po’. Gli disse che sarebbe andata a “vedere i Sepolcri” ( anche questo verbo “vedere” difficilmente si potrà cambiare) di S. Pasquale, del Carmine e di S. Giovanni di Dio (altro nome ormai desueto, sostituito da Santissimo Crocifisso, ma che è duro da estirpare soprattutto dal vocabolario dei tarantini con qualche anno in più) e poi se ne sarebbe tornata a casa.

I due arrivarono al punto, della primissima parte del pellegrinaggio, che tutti i confratelli diretti al di la del ponte girevole aspettavano. Poco prima di attraversare il ponte, un negozio di strumenti musicali, piazzava sull’entrata due altoparlanti che diffondevano le note delle marce funebri e quindi davano ai confratelli la possibilità, finalmente, di nazzicarsi. Se per le poste questo era un traguardo, per i responsabili del pellegrinaggio era fonte di problemi. C’era da attraversare il ponte girevole e per evitare di bloccare del tutto il traffico, con l’ausilio dei vigili, le poste venivano fatte concentrare e poi passare a gruppi di 5 o 6 in modo da interrompere il flusso delle auto per intervalli di pochi minuti e poi farlo ripartire. C’erano i bus che arrivavano da via Margherita e che dovevano girare da via Matteotti e quindi, per tutti questi motivi, il fatto che le poste si attardassero per farsi una bella e meritata nazzicata provocava qualche problema. I responsabili del pellegrinaggio capivano benissimo le esigenze dei confratelli, erano confratelli anche loro e sicuramente con più anni alle spalle, ma non si poteva bloccare la città e quindi cercavano di dare, come si suol dire, un colpo al cerchio ed uno alla botte.

Paolo e Franco si dondolavano ora a destra ora a sinistra con le note, tristissime della “Marcia Funebre, opera 35” di F. Chopin. Appena fu terminata e immediatamente prima che partissero le note della marcia successiva, furono fatti raggruppare con altre cinque poste e passarono il ponte girevole a passo d’uomo. Il traffico scorreva soltanto nel senso opposto, dietro di loro era stato bloccato dai vigili e Paolo poté guardare a destra il mar piccolo e le colline all’orizzonte e a sinistra il castello, il mar grande, capo San Vito e rendersi conto ancora, per l’ennesima volta, di quanto fosse bella la sua città.

Una volta in piazza Castello imboccarono via Duomo; purtroppo quell’anno non era prevista nel “giro” la cappella di San Lorenzo, all’interno del castello Aragonese; peccato perché era davvero bella e sarebbe stata una occasione in più per inginocchiarsi e pregare davanti al Santissimo. 

Superate le prime emozioni, ora finalmente Paolo poté concentrarsi e pregare. Aveva una sua scaletta di preghiere e di meditazioni, che ripeteva man mano che andavano avanti per una strada Maggiore piena zeppa di persone. Avevano anche potuto rallentare un po’ il passo visto che non bloccavano più nessun tipo di traffico. Ogni tanto rivolgeva al Padre le sue richieste; erano le stesse che Gli rivolgeva ogni giorno e quasi sicuramente erano le stesse che Gli rivolgevano di tutti gli altri confratelli che vedeva davanti a loro o che intuiva alle loro spalle. Raccontava al Signore i suoi dolori, che il Lui sicuramente conosceva bene, e che nulla, ma davvero nulla erano in confronto a ciò che il Signore aveva patito per tutti quanti noi. Pregava il Padre di ascoltare le sue richieste che in fondo erano le stesse che probabilmente tutti gli altri fratelli in pellegrinaggio stavano rivolgendoGli: salute, famiglia, lavoro, serenità. Erano preghiere che venivano da persone che per quei giorni avevano deciso di nascondere il proprio volto in una città dove anche essendo oltre duecentomila, alla fine ci si conosce un po’ tutti; avevano deciso di mettersi a piedi nudi, di sopportare le intemperie, di fare sacrificio. Sotto quel cappuccio c’era tutta Taranto: c’era il professionista affermato ed il pescatore, il giovane studente e uno degli ultimi arsenalotti in circolazione, l’operaio metalmeccanico ed il disoccupato, il laureato e l’analfabeta e tanti di questi erano spalla a spalla, con gli omeri uniti a nazzicarsi insieme e a chiedere perdono dei loro peccati, ma non in maniera formale, non “tanto per fare”. Il pellegrinaggio ai sepolcri lo si fa a volto coperto. Nessuno ti vede, non è una passerella. Il volto lo si scopre soltanto quando ci si inginocchia all’altare della reposizione, dove è esposto Cristo Eucaristia e dove la certezza che solo la fede può darti, ti dice che ora che sei lì davanti, ora che riconosci i tuoi peccati, che ti penti di cuore, Cristo è pronto a spalancare le Sue braccia e accoglierti nuovamente.

Percorrere via Duomo era sempre uno spettacolo. La bellezza di quei vicoli toglieva il fiato anche in presenza di tante brutture, ma quei giorni quei tarantini che avevano deciso, nonostante tutto, di restare a vivere nell’isola o di avviare nuove attività commerciali avevano fatto di tutto per renderla migliore di come poteva apparire ogni giorno.

Imboccando via Duomo, subito dopo essersi lasciati le colonne doriche sulla sinistra, era come entrare in un altro mondo. Cambiava la luce, il vento che soffiava o da un lato o dall’altro finalmente cessava. Molti negozietti avevano addobbato gli usci con foto, disegni, manifesti della settimana santa, qualcuno piazzava un mangianastri con le marce e dava nuovamente ai confratelli la possibilità di un’altra nazzicata. I ragazzini, le panarijdde, non risparmiavano i loro salaci commenti quando vedevano qualche posta che gli ispirava una battuta. A Paolo era capitato qualche anno prima di vestirsi con un fratello più basso di lui: era stato affiancato da un gruppetto di questi ragazzini che gli aveva chiesto:

“Ma c’è tte vestut’ cu figghiete?” Ma ti sei vestito con tuo figlio?

Paolo non avrebbe dovuto, ma sotto il cappuccio aveva iniziato a ridere.

Intanto la sera era calata, le luci dei fanali in via Duomo rischiaravano la strada. Riuscire a vedere ad oltre due metri di distanza per Paolo, che era miope, era impossibile. La luce del sole era stata un aiuto; una volta tramontato riusciva a vedere attraverso i fori del cappuccio giusto davanti a se, ma era sufficiente per poter proseguire.

Erano in pellegrinaggio da circa due ore, il traguardo era lontano, ma iniziavano a sentire il bisogno di un po’ di riposo. Sapevano bene che era una fase transitoria e che poi questa necessità, sarebbe stata dimenticata dal loro fisico ed avrebbero potuto continuare senza problemi. Il clima che si respirava nella città vecchia dava a Paolo e Franco nuova energia. Il fiume di persone aumentava con il passare dei minuti, percorrevano la loro stessa direzione, diretti per lo più a San Domenico, dove la statua dell’Addolorata gli aspettava, come una mamma che aspetta i suoi figli, molti dei quali si fanno vivi solo una volta l’anno, ma il suo cuore di Mamma è pronto ad accoglierli, sempre e comunque.

Ogni tanto uno dei due riceveva un colpetto da qualche passante distratto oppure arrivavano davanti ad un gruppo che si era fermato a chiacchierare al centro strada e non si era accorto del sopraggiungere dei due perdoni, allora Paolo, battendo il bordone sull’asfalto per due volte chiedeva permesso e subito la strada si apriva nuovamente davanti a loro.

Via Duomo, all’improvviso, si allargò e si trovarono davanti agli occhi la facciata del Duomo di San Cataldo, la piazza illuminata e piena di gente. Il portale della Cattedrale era completamente aperto e man mano che si avvicinavano riuscivano a vedere quanta gente ci fosse all’interno.

Pochi metri prima di arrivare all’ingresso, Paolo che era intento a ripetere sottovoce con il suo compagno tutte le cose da fare una volta arrivati, vide Giulia. Lei si avvicinò e lo salutò. Gli fece un breve resoconto del pomeriggio e poi disse che entrava in chiesa, dove c’era tutto il resto della famiglia, ad aspettarlo.

Percorsero gli ultimi metri che li separavano dall’ingresso della Cattedrale, lentamente, nazzicandosi. Gli fu chiesto di avanzare e così arrivarono dapprima sul marciapiedi e poi sul gradino in marmo all’ingresso della chiesa. A quel punto, scambiandosi appena un monosillabo, i due si tolsero il cappello dalla testa e lo lasciarono scivolare sulle spalle, poi si tuffarono nel ventre del Duomo che privo dei banchi sembra ancora più grande di quanto normalmente apparisse. Era pieno di gente; tanta ma tanta. Sembrava che tutta la città si fosse data appuntamento li e probabilmente era davvero così. Un tacito accordo e tutti i cataldiani erano accorsi, in quel giorno, nella culla della loro Fede.

Una volta dentro percorsero la navata centrale a passo un po’ più svelto e si diressero verso la scalinata a destra dell’altare maggiore per andare al cappellone dove era stato allestito, come ogni anno, l’altare della reposizione. La scala era piena di gente e furono aiutati a salire dal sagrestano del duomo, una persona sempre pronta e disponibile. Finite le scale, i pochi metri da fare per arrivare al cappellone erano anche questi pieni di fedeli. Sempre con il cappuccio calato sugli occhi, percorsero quei pochi metri ed arrivarono all’ingresso.

Il sepolcro allestito, come usanza della cattedrale, non era dei più maestosi paragonato con quelli allestiti dalle altre chiese, ma c’era tutto il contorno a far da cornice. I marmi, le colonne, le statue. L’odore di incenso era fortissimo, il profumo della cera delle candele altrettanto. L’unione di questi due profumi con l’odore dei fiori di primavera, delle zagare, era qualcosa di inebriante. Paolo e Franco poterono scorgere la coppia che li precedeva sull’inginocchiatoio. Ai lati del sepolcro c’erano, di guardia, cavalieri e dame del Santo Sepolcro. 

Due file di boy-scout, su entrambi i lati, facevano in modo che si aprisse un corridoio tra la folla, all’interno del quale Franco e Paolo poterono passare. Arrivarono a poco più di un metro dalla posta che veniva prima di loro e che era all’inginocchiatoio, si fermarono un istante, poi come avevano ripetuto tante volte durante il tragitto, Paolo battè due volte il bordone per terra; lui e Franco si inginocchiarono ed incrociarono le mazze e le corone del Rosario sbattendole sul petto. Fatto questo saluto, si sistemarono lateralmente all’altare, sulla destra, poi Paolo si staccò dal suo compagno e si avvicinò al suo omologo Decor per sussurrargli all’orecchio la frase che avvisava che la nuova posta era arrivata e bisognava dargli il cambio.

“Sia lodato Gesù e Maria.”
“Sempre sia lodato.”

Paolo riprese il suo posto accanto a Franco ed attesero che i due perdune terminassero le loro preghiere. La decima posta si alzò e si mise sul lato a sinistra dell’altare, di fronte a Paolo e Franco, un momento di pausa e poi i due Decor batterono le mazze per salutarsi: i quattro, senza inginocchiarsi, incrociarono le mazze e le corone del Rosario, dopodiché la decima posta si incamminò versò l’uscita per riprendere la strada e Paolo e Franco si trovarono davanti all’altare della reposizione. Ripeterono il saluto e si sistemarono sugli inginocchiatoi, posarono lateralmente i bastoni, si scoprirono il volto, si segnarono ed iniziarono a pregare.

Per qualche minuto buono, Paolo e Franco furono soli. Attorno a loro c’erano centinaia di persone, ma loro due erano soli. Soli, con Cristo che era nell’ostensorio davanti a loro.

Il ritmo, purtroppo era incalzante e dopo pochi minuti, nonostante il brusio, riuscì a sentire alle sue spalle lo sbattere delle medaglie della dodicesima posta che si avvicinava. Man mano il vociare di sottofondo si attenuò e il rumore della posta che, dietro di loro, si inginocchiava fu inconfondibile. Dopo qualche istante, Paolo sentì al suo orecchio le parole note. Terminò la preghiera che stava recitando in quel momento e poi guardò il suo compagno a chiedergli se fosse pronto. Franco fece di si con un impercettibile movimento della testa. I due si segnarono, abbassarono i cappucci e li sistemarono sul volto, ripresero i bastoni e fecero tutto al contrario di come lo avevano fatto poco prima. Si inginocchiarono per il saluto davanti all’altare, poi salutarono la posta che avrebbe preso il loro posto e si avviarono fuori dal cappellone sempre tra le due ali di folla tenute dai boy-scout.

Presero la scalinata opposta a quella che avevano usato per salire e poi sempre seguendo le indicazioni degli addetti, furono indirizzati verso una porticina laterale che dava su via Duomo. Immediatamente prima di uscire, i due indossarono il cappello e ritornarono dalla luce sfavillante alla penombra dei vicoli.

Dopo pochi metri Giulia, in compagnia di tutti i suoi famigliari, raggiunse suo marito. Man mano che procedevano qualcuno rivolse a Paolo e Franco le domande di rito: siete stanchi? Avete freddo? In realtà quel momento di leggera stanchezza era passato, il freddo all’interno dei vicoli non lo si avvertiva tanto e i due erano pronti a fare ancora tanta strada. Dopo un po’ arrivarono anche la fidanzata e la suocera di Franco. 

I due confratelli arrivarono alla curva che precede l’arrivo alla chiesa di San Domenico. La folla era aumentata in maniera esponenziale. Gli addetti al pellegrinaggio li avevano invitati ad accelerare: ad una certa ora la confraternita dell’Addolorata non avrebbe più permesso l’ingresso in chiesa per poter aver modo di preparare l’uscita della processione. Se si voleva dar modo a tutte le poste che seguivano di poter entrare a San Domenico, bisognava sveltire le operazioni. 

Paolo vedeva davanti ai suoi occhi un muro di gente e quando arrivarono a svoltare a destra, seguendo la strada, si trovò di fronte un oceano vero e proprio, stretto nei poco più di sei metri di larghezza del vicolo. Riuscire a procedere era davvero impresa dura; in più a rendere difficile il tutto c’erano i fari piazzati dalle tv per le riprese arrivavano dritti negli occhi e non permettevano di vedere gran che. 

In un modo o nell’altro arrivarono ai piedi della scalinata di San Domenico. C’erano le poste che li avevano preceduti che scendevano da un lato, mentre loro due furono fatti salire dall’altro. Piano piano, un gradone alla volta. Salire alla fine non è difficilissimo, sia pure con il volto coperto, il difficile sarebbe venuto al momento di scendere. Il bordone sul gradone successivo, poi il via che uno dei due pronunciava all’altro, prima la gamba destra e poi quella sinistra e così avanti per le tre rampe di scaloni in marmo che portavano all’ingresso del tempio.

Nei pochi metri che andavano dall’ingresso sino al sepolcro, incontrarono e “salutarono” almeno tre coppie di quelle che venivano prima di loro e che stavano uscendo dalla chiesa. Poi sempre facendosi largo tra la folla, arrivarono alle spalle della decima posta e ripeterono tutto ciò che avevano già fatto a San Cataldo.

Qui di guardia la sepolcro c’erano due confratelli dell’Addolorata in abito di rito, mentre la scenografia che era stata allestita era decisamente più imponente di quella vista precedentemente.

Paolo e Franco ebbero pochi minuti per recitare le loro meditazioni; subito dopo arrivò la dodicesima posta e dovettero lasciare il posto all’inginocchiatoio, ma prima di uscire da San Domenico, bisognava passare a “salutare” l’Addolorata.

Nell’altare accanto a quello dove era stato realizzato il sepolcro, la statua dell’Addolorata era stata preparata per la processione che sarebbe iniziata dopo qualche ora. Era stata posta fuori dalla nicchia e messa su dei cavalletti; bisognava soltanto infilare le sdanghe e sarebbe stata pronta. Ai piedi della statua c’erano tantissimi mazzi di fiori e tanti altri ne venivano messi con il passare dei minuti. Delle donne si occupavano di svuotare dai fiori la base della statua, mettendoli in dei vasi, dando così la possibilità ai nuovi arrivati di poter lasciare il loro omaggio e recitare la loro preghiera.

Arrivando davanti alla statua, Paolo e Franco avrebbero voluto avere qualche attimo in più per rivolgere una preghiera alla Vergine, ma bisognava fare in fretta. Paolo urtò il bastone per terra, incrociarono le corone ed i bastoni, salutando in questo modo il simulacro e fecero dietro-front diretti all’uscita.

Lateralmente c’erano dei banchi sui quali c’erano dei fedeli che recitavano il Rosario. Paolo credette di scorgere il volto dell’amico di Franco, Fabrizio gli sembrava di ricordare, quello che aveva conosciuto la domenica precedente.

Fabrizio era arrivato in San Domenico intorno alle sette, accompagnato da Daniela e dalle rispettive mamme, avevano preso posto nei banchi messi lateralmente alla statua della Vergine Addolorata. Dopo un po’, come se avesse avuto delle spine, si era alzato ed era andato a fare un giro in sacrestia. Aveva incontrato degli amici, confratelli dell’Addolorata e aveva scambiato qualche chiacchiera. Poi aveva incontrato il Priore e si era fermato a scambiare due chiacchiere e ricevette da questi la richiesta di fermarsi per l’uscita della processione. Fabrizio non l’aveva preventivato, aveva da riaccompagnare a casa le tre donne, ma non poteva farsi sfuggire questa occasione. Tornò da Daniela e la informò delle sue intenzioni, lei si offrì di riaccompagnare a casa la madre e la suocera e di tornare a riprenderlo intorno all’una. 

Rimase da solo; in fondo era quello che aspettava. Lui e la sua “Mamma”. Recitò le litanie insieme a tutte gli altri fedeli presenti, dopodiché si rivolse direttamente alla Vergine affinché ascoltasse le sue preghiere.

“Mamma mia, ascoltami…”

Come previsto le operazioni di discesa furono un po’ più complicate di quelle di salita. Il cappuccio sul volto, la gente che li superava e rischiava di farli perdere l’equilibrio. Il bastone sul gradone successivo, il “vai” pronunciato da uno dei due, prima la gamba destra e poi quella sinistra e così fin giù.

Terminato il pendio La Riccia ed arrivati in piazza Fontana, la folla si era ormai diradata. Tutti erano di passaggio diretti a San Domenico o a prendere i posti migliori sul pendio. 

Paolo e Franco proseguirono il loro pellegrinaggio, scambiando qualche impressione da sotto i cappucci e proseguendo ciascuno con le rispettive meditazioni e preghiere.

Approfittando del fatto che Giulia gli era vicino, Paolo si informò su che ora si fosse fatta. Oramai avevano superato la metà del loro percorso e stavano facendo ritorno al di la del ponte. Giulia lo salutò: si sarebbero rivisti a casa.

Quando sbucarono su via Garibaldi, il vento che soffiava dal mar piccolo si fece sentire. I camici iniziarono a svolazzare e da sotto di questi arrivava un arietta fresca che ebbe l’effetto di risvegliare Paolo e Franco che al riparo, nei vicoli, si erano un pochino rilassati. Un brivido di freddo percorse la schiena di Paolo. 

Si scorgeva da lontano la chiesa di San Giuseppe, l’ultima che avrebbero visitato prima di tornare al Carmine e rendere omaggio al sepolcro della loro chiesa. Sapevano che a San Giuseppe, terminata l’adorazione, avrebbero potuto sostare per qualche minuto nei locali della sagrestia, bere un bicchiere d’acqua, mangiare qualche biscottino e soprattutto soddisfare qualche altro bisogno che dopo oltre cinque ore e con quel freddo era diventato impellente. E infatti una volta che ricevettero il cambio dalla posta che gli seguiva, invece di tornare indietro ed uscire dalla chiesa, i due presero la strada della sagrestia ed entrarono nel salone della parrocchia dove potettero rifocillarsi e sedersi per qualche minuto. Poi dopo questa breve, ma necessaria sosta, reindossarono i cappucci, presero i loro bordoni, calzarono i cappelli ed usciti da una porta laterale, ripresero il loro cammino.

Arrivarono in via di Mezzo e poi alla scalinata che li avrebbe portati a piazza Castello. Si fermarono davanti all’ingresso della casa di Sant’Egidio per il saluto al compatrono della città, e ricominciarono la salita.

Piazza Castello, l’attraversamento del ponte, sempre con l’ausilio dei vigili urbani, il fiume di gente che seguiva il percorso contrario e che correva a cercare gli ultimi posti utili per poter vedere la statua dell’Addolorata quando sarebbe uscita da San Domenico, poi di nuovo via D’Aquino, piazza Giovanni XXIII, affollata di gente. Anche rientrare al Carmine non fu semplice, c’era tanta gente; furono fatti passare e riuscirono ad entrare. 

Terminata la funzione del pomeriggio, sembrava fosse passato chissà quanto tempo mentre in realtà si trattava solo di poche ore prima, i banchi erano stati spostati lateralmente e la navata era libera. 

Paolo ed il suo compagno entrarono e furono accolti dagli addetti della confraternita che durante tutto il percorso gli avevano seguiti, istruiti ed assistiti. Più volte qualcuno di questi si era avvicinato chiedendo:

“Tutto a posto?” “Bisogno di qualcosa?”

Adesso erano arrivati al termine, vedevano la decima posta in adorazione sull’inginocchiatoio, poi sarebbe toccato a loro: l’ultimo saluto, l’ultima adorazione. Erano stanchi e infreddoliti, ma avrebbero ricominciato di nuovo.

Quasi come se Franco avesse letto i pensieri del suo compagno, gli sussurrò:

“Facciamo inversione e ricominciamo?”

Paolo sorrise; magari! Ho aspettato tanto e adesso è già finito pensava e mentre nella mente gli passavano questi pensieri, sembrava che i loro piedi si fossero piantati per terra. Non avanzavano di un centimetro. Si sollevavano al ritmo della nazzicata, ora a destra, ora a sinistra, ma non si muovevano. Non volevano saperne. Non volevano che finisse.

Poi, come tutte le cose belle, dovettero guardare in faccia la realtà e compiere quei pochi passi che li separavano dall’ultimo altare della reposizione.

Compirono il saluto; Paolo pronunciò per l’ultima volta la frase:

“Sia lodato Gesù e Maria.” e per l’ultima volta si sentì rispondere:
“Sempre sia lodato.”

Si inginocchiarono; entrambi rivolsero le loro ultime preghiere davanti a Cristo Eucaristia e dopo poco ricevettero il cambio.

Fatte le genuflessioni, rimesso il cappuccio sugli occhi, entrarono in sagrestia e poi presero le scale che li avrebbero portati nei locali della Confraternita. Si sfilarono i cappucci e mentre salivano con la mano libera dal bordone si tenevano il bordo del camice per evitare di inciampare. Si affacciarono in segreteria, la televisione trasmetteva in diretta le immagini del portale di San Domenico dal quale il troccolante stava uscendo giusto in quel momento. Andarono nella sala a riconsegnare i bordoni, si guardarono, si abbracciarono forte e qualche lacrima scese dai loro occhi.

Arrivò anche la dodicesima posta ed uno dei due, lasciato il bastone, pronunciò la fatidica frase:

“E pure quest’anno abbiamo messo i piedi a terra!”

Man mano che il tempo passava all’interno del tempio di San Domenico, l’aria si faceva sempre più elettrica. Ormai i confratelli che dovevano prendere parte alla processione della Vergine Addolorata, arrivavano alla spicciolata, con i loro borsoni con dentro il camice. Un momento di sosta davanti all’altare della reposizione e dopo un altro istante davanti alla statua della Vergine, poi si infilavano tutti dietro la tenda rossa posta alle spalle dell’altare, per poter andarsi a cambiare.

Fabrizio li guardava con malinconia e poi subito dopo rivolgeva di nuovo lo sguardo al simulacro.

Qualche minuto prima delle undici, gli addetti della confraternita dell’Addolorata, riconoscibili per la spilletta con il cuore trafitto messa all’occhiello della giacca, invitarono i fedeli ad uscire dalla chiesa. Le porte dovevano essere chiuse e si doveva sistemare la processione affinché a mezzanotte in punto potesse avviarsi.

Le operazioni furono completate con qualche difficoltà, molti non sarebbero voluti uscire, volevano restare ancora qualche minuto con la loro Mamma, ma non era possibile. L’avrebbero rivista di li a poco. Solo ad alcuni era concesso restare. Fabrizio era tra questi.

Chiuso il portone, il priore chiamò nei pressi dell’altare tutti i confratelli che avrebbero preso parte alla processione. Erano tutti in abito di rito, con la loro mozzetta nera fatta eccezione per i tre crociferi e per le due pesare che in compagnia dei loro genitori ostentavano orgoglio e fermezza.

Fece il suo ingresso, dalla sagrestia, l’Arcivescovo accompagnato dal suo segretario. Rivolse un saluto ai presenti e poi al microfono pronunciò un breve discorso sull’importanza della processione che sarebbe partita di li a poco e sul ruolo fondamentale che ognuno dei partecipanti avrebbe avuto come veicolo di fede nei confronti della gente assiepata lungo la strada. Dopodichè invitò tutti quanti ad unirsi in preghiera e invocò la benedizione del Padre su di loro.

Terminato questo intervento, senza bisogno che nessuno avesse dato un ordine, schizzarono ognuno ai propri posti. Gli addetti della confraternita finirono di sistemare le sdanghe al di sotto della statua, le altezze dei cuscini per bilanciare le differenti altezze dei quattro portatori e delle quattro forcelle erano già stati definite nelle prove effettuate nei giorni precedenti. Ognuno prese il suo simbolo: il troccolante prese la troccola, la baciò e la fece suonare per richiamare l’ordine ed avvisare tutti quanti che si avvicinava il momento di uscire. I tre crociferi presero ognuno la sua croce, i mazzieri le mazze, le pesare i due pesi, la prima posta il bastoncino, i quattro in frac presero le forcelle. Tutto era pronto. Le pie donne, con il loro cero in mano, avevano letteralmente circondato la statua della Vergine e gli addetti della confraternita e la squadra dei portatori dovettero faticare non poco per farsi strada, arrivare ai piedi dei cavalletti e cominciare a sistemare la statua per poter cominciare il pellegrinaggio.

Fabrizio osservava tutto questo quasi appartato, non voleva intromettersi.

Il priore ed i suoi assistenti correvano avanti e dietro per tutta la navata del tempio. Tutto era pronto, ma volevano verificare personalmente che non ci fosse qualcosa fuori posto