martedì 1 aprile 2014


Claudio Capraro: "Otto giorni"

MERCOLEDI

Paolo era pronto per uscire già da una decina di minuti, ma era ancora presto e quindi gironzolava per casa impaziente. Ogni trenta secondi i suoi occhi si posavano sulla mozzetta che da due giorni aveva appeso fuori dall’armadio. Cercava di distrarsi, ma senza riuscirci. Allora si fermava, la guardava, la toccava; analizzava tutta la superficie per verificare che non ci fosse qualche macchia sfuggita a tutte le precedenti ispezioni. Prendeva il cappello e lisciava il pelo di coniglio seguendo il verso giusto. Ripeteva mentalmente tutto il processo della vestizione per verificare ancora una volta, forse la centesima, che avesse preparato tutto, che non si fosse dimenticato nulla.

Guardava fuori dalla finestra per scrutare il cielo. Non pioveva più, si era alzato il vento e le strade pian piano si asciugavano. Ma di sole non se ne vedeva molto. 

Tornava a camminare per le stanze di casa, mentre Giulia rifacendo il letto cercava di distrarlo dai suoi pensieri, ma senza molto successo.

Stava ripassando mentalmente, per l’ennesima volta, tutti i passaggi da fare durante il pellegrinaggio: cosa avrebbero dovuto fare quando avrebbero incontrato un’altra posta, quando sarebbero arrivati in chiesa e quando si sarebbero dovuti inginocchiare davanti al Santissimo.

Tutti questi pensieri lo accompagnarono anche nel tragitto che da casa conduceva in ufficio e che solitamente compiva a piedi. In quei giorni poi era obbligatorio trovare un buon posto per parcheggiare l’auto e non spostarla più fino a sabato. Muoversi nel traffico e riuscire a parcheggiare il giovedì e il venerdì santo era un’impresa che lo faceva stare male al solo pensiero.

Dopo aver pranzato, Fabrizio si concesse una pennichella.

“Mi appoggio sul letto.” disse ai suoi, in realtà dormì profondamente per oltre due ore.

Quando si svegliò aveva bisogno urgente di un caffè. Si alzò dal letto ancora intontito e andò in cucina.

La moka era già pronta sul fornello, bisognava soltanto accendere il gas. 

Sua madre era intenta agli ultimi ritocchi all’abito che Fabrizio avrebbe indossato il venerdì per la processione.

“Nà a mammà, mò accendo il caffè.”
“Grazie.”
“Qua è tutto pronto, lavato, stirato e tutto, devi solo mettere nella valigia.”
“Loredana, per favore, versi il caffè?”
“Mooooo.”
“Attenzione che sta lo scapolare sul tavolo.”
“Siiiiiii, l’ho visto.”
“Che quello è del nonno.”

Lo scapolare che Fabrizio utilizzava era del suo nonno materno, nonno Ciccio, confratello anche lui tanto del Carmine quanto dell’Addolorata. Il nonno, prima di passare a miglior vita, aveva diviso tra i suoi tre nipoti alcuni pezzi importanti del suo abito da confratello. Ai suoi cugini che portavano entrambi il nome del nonno, Francesco, erano toccati rispettivamente il cappello, la cinghia nera, a curege, e la mozzetta con la corona del Rosario, Fabrizio aveva ereditato lo scapolare.

“Che fai mangi qua stasera?” chiese la madre.
“No mà, mò faccio un salto da Daniela, poi devo passare in Congrega e poi vado a prendere servizio. Prima di montare mi prendo un pezzo di focaccia.”
“Vabbè. Come vuoi tu.” rispose delusa sua madre.

Quando Fabrizio arrivò, i pochi metri di marciapiede di via Giovinazzi che partendo da via D’Aquino, scendendo verso lungomare, arrivano sino al portone di ingresso alla sagrestia della Chiesa del Carmine, erano pieni di gente. Erano tutti i confratelli che attendevano di salire e nel frattempo si erano fermati a fare due chiacchiere. L’aria era elettrica, tutti quanti non vedevano l’ora che arrivasse il giorno successivo. C’era chi rideva, e chi rimaneva serio, ma tutti avevano la mente al giorno dopo.

Fabrizio si guardò intorno e dopo un po’ vide Gianni. I due rimasero imbarazzati entrambi, per una frazione di secondo, poi continuando a guardarsi negli occhi percorsero i pochi metri che li dividevano, si strinsero la mano e si abbracciarono forte.

“Fabrì… ti volevo chiedere scusa, ma…”
“Quando ti devi stare zitto? Al massimo sono io che ti devo chiedere scusa.”
“No Fabrì davvero.”
“No Gianni, sono io che non ho capito tante cose, e che… avevo fatto delle promesse… ho fatto un voto…”
“Fabrì, non lo voglio sapere. Immagino di capire quello a cui ti riferisci e sono cose tue. Se è a tua madre che ti riferisci, alla sua salute, basta non mi devi dire niente.”
“Vabbè, mò basta. Tu che devi fare?”
“Domani pomeriggio faccio la Messa con la lavanda dei piedi. Almeno mi vesto pure quest’anno.”

Mentre continuavano a chiacchierare, arrivò Enzo, il compagno di Fabrizio, insieme a Franco e Paolo ed il gruppetto continuò a chiacchierare fino a quando Franco non propose di salire invece di stare per strada dove tra l’altro faceva fresco.

Nei locali della Confraternita c’era un andirivieni di gente. Chi correva a destra e chi a sinistra; il segretario era al telefono ed urlava con il suo interlocutore; il priore era impegnato in una discussione con un confratello dallo sguardo perplesso, il maestro dei novizi ed i suoi assistenti davano le ultime istruzioni a chi il giorno successivo avrebbe compiuto per la prima volta il pellegrinaggio. Era strano vedere quei ragazzi, in abiti borghesi con il bordone in mano, esercitarsi a compiere u’ salamelicche, o mimare di abbassarsi il cappello sulla schiena come se stessero mettendo piede in una chiesa.

Tutti quanti non stavano più nella pelle, ormai c’erano quasi; meno di ventiquattr’ore. La tensione si tagliava ed era mista alla gioia di molti ed alla tristezza di altri. Avevano aspettato un anno, anzi per la precisione 378 giorni erano passati dalla Pasqua dell’anno precedente.

Paolo ripercorse mentalmente tutto quell’anno e si rese conto ancora una volta come tutta la sua vita ( e sicuramente quelle di tutti quanti i confratelli), fosse nel corso del passare dei mesi proiettata verso quella settimana.

Ricordò che il precedente mese di luglio, un pomeriggio, di ritorno dal mare, forse c’erano quaranta gradi, lui e Giulia erano sul divano a riposarsi e guardare la tv; le persiane erano chiuse per non permettere al sole di entrare a rendere ancora più caldo quel soggiorno; il ventilatore era al massimo, ma gli effetti al contrario erano minimi. Ad un certo punto Paolo credette di sentire una musica, chiese conforto a Giulia ma lei non aveva sentito nulla. Andò a sbirciare dalle liste delle persiane ma vide soltanto la strada deserta e assolata. Chi sarebbe uscito di casa con quel caldo?

Tornò a sedersi sul divano, ma dopo un po’ risentì quella musica, non poteva sbagliarsi, e questa volta anche Giulia la sentiva. Si fiondò alla finestra, spalancò la persiana e si affacciò al balcone. Era la banda, ed erano le note di “Tristezze” che accompagnavano l’ultimo viaggio di un piccolo boss ammazzato qualche giorno prima nelle campagne intorno alla città dai suoi rivali in affari. 

Intanto anche gli altri balconi si erano riempiti di curiosi, ma dopo un po’ la maggior parte delle persone, Giulia compresa, erano tornate in casa, all’ombra ed al fresco chi di un condizionatore, chi di un ventilatore. Paolo e qualche altro come lui no. Restarono lì ad ascoltare quelle note sino al termine della marcia. Gli sguardi di Paolo e di quegli altri sconosciuti si incrociarono più volte durante quella esecuzione, e loro si capirono. Sembravano volersi dire: “quando arriverà?”, “siamo ancora a fine luglio, fa un caldo bestiale, ma come vorrei che fosse giovedì santo”. 

Quando finalmente rientrò in casa, richiudendo saggiamente le persiane, Paolo cercò di spiegare a Giulia che anche in piena estate quelle note avevano un effetto particolare, ma non ci fu verso.

Poi, passata l’estate, l’autunno e poi man mano che i giorni scorrevano, arrivava Santa Cecilia che a Taranto vuol dire Natale. Pettole e pastorali, sempre bande a far da protagoniste, ma con altre musiche (bellissime anche queste): “Pace e amor, è la Pastoral…” che bello, ma per Paolo si trattava di una parentesi che si chiudeva senza deroghe il 6 gennaio quando Giulia, fan del Natale, non voleva saperne di riporre albero e festoni sul tramezzo. Qualche giorno e poi Sant’Antonio Abate, cominciava il carnevale. Una festa per lui inutile, non capiva chi la pensava diversamente, capiva i bimbi che la domenica mattina sperando nel sole volevano andare a fare una passeggiata con mamma e papà a lungomare, arrivava a capire i Massafresi, ma per lui il carnevale era inutile, o meglio aveva la sua utilità nel far montare man mano l’attesa sino al mercoledì delle Ceneri, quando sarebbe cominciata la Quaresima.

Le Quarant’ore, le Via Crucis, le Via Matris erano state un susseguirsi di emozioni, di attesa, ma soprattutto erano state occasioni per fermarsi e riflettere, pregare, osservare alcune prescrizioni che forse potevano anche essere ritenute inutili, ma che invece avevano la loro importanza.

Astenersi, almeno in alcuni giorni, dalle carni, digiunare, fare opere di carità erano cose che tutti i confratelli compivano abitualmente e che chi muoveva loro tante critiche non conosceva, non vedeva, non sapeva. 

La madre di Paolo, riferendosi al digiuno, in quel periodo ripeteva spesso:

“I peccati non sono quelli che entrano, ma quelli che escono.”

L’adagio conteneva certamente una verità, ma allora si sarebbe potuto trovare un escamotage a tutto ciò che non ci piace o che non ci è comodo, pensava Paolo.

I suoi pensieri furono interrotti dalla voce stentorea del segretario che invitata tutti a salire al terzo piano per poter cominciare la riunione organizzativa.

Nel corso di questa riunione, dopo una breve introduzione del Padre Spirituale, furono date una serie di informazioni da parte del segretario e del Priore. I percorsi da effettuare, gli orari da rispettare, le chiese da visitare durante i due pellegrinaggi e tante altre piccole comunicazioni che suscitavano volta per volta l’approvazione o la disapprovazione di parti differenti del pubblico presente.

Dopo circa un’oretta, finita la riunione, i cinque che erano stati seduti insieme, tornarono giù a scambiare qualche altro commento, dopodiché ognuno prese la sua strada, chi per casa, chi per il siderurgico.

Ancora poche ore.