lunedì 31 marzo 2014

Mattia Giorno


Tutti ormai sappiamo che il 4 aprile 1765 Francesco Antonio Calò ratificò, con un atto notarile, la donazione delle statue di Cristo Morto e dell’Addolorata alla confraternita del Carmine. In pochi però conoscono la storia della famiglia Calò, e ancor meno sono le persone che conoscono le reali motivazioni che hanno spinto Francesco Antonio Calò ad effettuare tale donazione.

La storia ha inizio nel 1580 quando Pietro Antonio Calò, capostipite della famiglia, giunse a Taranto; sposatosi con la nobile tarantina Ippolita Imberverato i due ebbero un figlio, Francesco Antonio, non il Francesco Antonio autore della donazione, bensì il suo trisavolo, il quale ebbe a sua volta quattro figli. Pietro Antonio, primogenito di questi quattro figli, sposatosi con Francesca Cimino, ebbe sette figli tra cui Diego e Francesco Antonio, quest’ultimo nonno del Francesco Antonio a cuoi noi dobbiamo la nostra processione.

È importante comprendere l’albero genealogico della famiglia Calò per capire come cominciò la prima processione dei Misteri nella quale erano presenti solo le statue di Cristo Morto e dell’Addolorata.

Accertata la discendenza della famiglia Calò, bisogna ora far riferimento a Don Diego, fratello del nonno di Francesco Antonio, e reale padre della processione dei Misteri. Forse, a detta del defunto priore Nicola Caputo nell’opera “Il cammino del silenzio”, fu nel 1703, anno in cui giunse a Taranto una terribile carestia, che Don Diego, spinto da animo cattolico, decise di far costruire a Napoli le due statue, convinto che per il tramite della penitenza e della devozione la città si sarebbe potuta riprendere dalla brutta pestilenza. Si dice però che non fu solo la devozione di Don Diego la causa dell’inizio di tale rito perché a quei tempi era opinione diffusa che bastava mostrarsi timorati di Dio e generosi verso il prossimo per assicurasi l’accesso al Paradiso. Proprio così: timorato e generoso; un uomo come Don Diego infatti aveva la necessità di farsi perdonare dalla cittadinanza tarantina per alcuni gesti commessi mentre era alla guida del porto. Don Diego fu precisamente accusato di azione “indecorosa” e “disonesta” nello svolgimento della sua funzione. Al nipote, Pietro Antonio, capitò addirittura di finire in carcere, per poi essere scagionato e promosso a regio doganiere, segno questo della sua presunta innocenza o tantomeno di una esagerazione nella formulazione delle accuse.

Da Diego Calò, per le motivazioni sopra elencate, a Francesco Antonio ed infine a Pietro Antonio, le statue di Cristo Morto e dell’Addolorata continuarono ad essere portate in processione la sera del Venerdì Santo. Poi, alla morte di Pietro Antonio, ecco giungere sulla scena il suo unico figlio maschio: Francesco Antonio “juniore”, vero protagonista di questa storia poiché, con la donazione, mutò la processione da un semplice evento privato ad un rito cittadino.

Probabilmente, come sosteneva il priore Nicola Caputo, Francesco Antonio volle letteralmente disfarsi della processione e quindi delle due statue. Sempre secondo il compianto priore, Francesco Antonio non era proprio il tipo da stare dietro a certe cose. Nel 1765, quando decise di donare le due statue, aveva appena 23 anni, ma era già un personaggio di spicco nella Taranto di allora. Dedito alla politica Francesco Antonio fu per ben due volte sindaco di Taranto e presidente della Repubblica Partenopea durata appena 29 giorni. Troppi, per un uomo come lui, gli oneri per l’organizzazione della processione, tanto che optò per l’affidamento di tale compito ad una confraternita.

Quel che a noi confratelli più di ogni altra cosa importa è uno spezzato del documento di cessione dove Francesco Antonio scrisse di aver scelto la confraternita di S. Maria del Carmine poiché essa è stata “la comunità che ha mostrata maggior inclinazione e divozione verso di detta Pia opera di detta Processione”. Forse è stata proprio questa, ossia la forte devozione della confraternita del Carmine, ad aver spinto Francesco Antonio a concedere tale onore al nostro sodalizio, un’ipotesi che ci renderebbe ancor più fieri del nostro operato.

Tornando a noi, è giusto sapere che, in compenso alla donazione, Francesco Antonio Calò chiese semplicemente di essere invitato ogni anno alla processione per “occupare il primo luogo tra gli Officiali” e chiese inoltre “un torcio di cera lavorata di libre due in ricompensa della detta donazione”. Un accordo questo che la confraternita del Carmine ha onorato per tanto tempo.

Così facendo il 5 aprile 1765, Venerdì Santo, le statue di Cristo Morto e dell’Addolorata uscirono per l’ultima volta dalla cappella Calò senza farvi più ritorno. Dall’anno seguente infatti, 1766, sino ad oggi, i due simulacri sarebbero usciti dalla chiesa del Carmine dove erano entrati il Venerdì Santo dell’anno precedente.

Francesco Antonio, dopo la donazione si sposò con Maria Raffaella de Angelis di Manfredonia, ma non avendo avuto figli la famiglia si estinse con lui. Egli, dopo anni dedicati alla politica, tra incarichi e carcere, si spense a Taranto il 7 agosto 1817.

Vorrei terminare con le parole di Nicola Caputo grazie al quale ho potuto cogliere queste informazioni: «Questi era Francesco Antonio Calò, l’uomo della donazione. A lui la confraternita del Carmine, ma anche la città intera di Taranto, devono molto per quel che ci ha lasciato. Che differenza tra l’ingresso per la prima volta al Carmine delle statue di Cristo Morto e dell’Addolorato quella notte del 1765 e il rientro di oggi delle otto statue dei Misteri. Allora non c’era quasi nessuno, oggi c’è la folla. E i confratelli piangono. Il cappuccio bagnato di lacrime, varcano a capo chino e singhiozzando la soglia del nostro tempio. E il pianto è un atto di fede. Anche le perdùne piangono