Valeria Malknecht
Era da poco iniziato gennaio, l’Epifania
“…le feste aveva portato via…”, e già pensavo e scrivevo dell’attesa della
Quaresima, di quel 5 Marzo.
Sembrava così lontano, ma eccolo
qui, è già diventato questo 5 marzo.
Più di un mese è passato da
allora, tante cose sono accadute in questo tempo di attesa che per me è stato
ricco di momenti di prova e di emozioni contrastanti.
I coriandoli sparsi per le strade
ed una piccola Biancaneve per mano al suo papà, questa mattina mi hanno
ricordato che oggi è Martedì Grasso, l’ultimo giorno di carnevale.
Eppure sembro quasi non
accorgermi che è carnevale.
Ora mi viene solo in mente che il
tempo di attesa della Quaresima cede il passo al Tempo di Quaresima vero e
proprio.
Oggi, martedì 4 marzo, si sono
concluse le Quarantore di adorazione, meditazione e preghiera dei fedeli al
S.S. Sacramento.
I Confratelli e le Consorelle si
sono svestiti del loro quotidiano e sono tornarti a vestire orgogliosamente
l’Abito di Rito e lo Scapolare.
Ciascuno, nel silenzio dei propri
imperscrutabili pensieri, accarezzando le medaglie dei rosari, si è
inginocchiato ai piedi dell’Altare, abbandonandosi alla contemplazione: “Eccomi,
questa è la mia vita. Sono imperfetto, sono fragile, forse non sarò proprio il
figlio ideale, ma sono qui. Ti chiedo perdono e Ti affido ciò che più amo al
mondo”.
Le ginocchia non fanno male
questa volta, non vacillano. Anzi, vogliono continuare a restare piegate in
segno di rispetto e di sincero pentimento.
Indossare il nostro Abito ed il
nostro Scapolare, come abbiamo fatto in queste ore di preghiera, non è un
rituale metodico e fine a se stesso.
Tutt’altro.
È una tangibile testimonianza che
l’uomo rende a Dio della propria fede.
Non si tratta solo di stoffa
sapientemente cucita e imbastita per far vedere agli altri che si fa parte di
una comunità.
Perchè è per mezzo di quella
stoffa che l’uomo imperfetto testimonia a Dio, a se stesso e agli altri uomini il
legame con la spiritualità ed il senso della propria fede.
È la pietà popolare.
La liturgia di questa sera ci
propone di riflettere proprio su questo.
Come la pietà popolare possa
farsi veicolo per evangelizzare le genti.
Ed il punto di partenza di queste
riflessioni sono alcuni passi dell’ “Esortazione
apostolica Evangelii Gaudium” di Papa Francesco.
‹‹…ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista
della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea
costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di
atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve
rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano «è insieme figlio e
padre della cultura in cui è immerso…».
‹‹…Si tratta di una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei
semplici». Non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante
la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede
accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum. È «un modo
legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa…».
‹‹…porta con sé la grazia …
dell’uscire da sé stessi e dell’essere pellegrini: «Il camminare insieme verso
i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare,
portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto
di evangelizzazione»..
La spiritualità, quindi, per
essere compresa davvero dall’uomo e per essere a sua volta trasmessa agli altri
uomini, ha bisogno di essere concretizzata ed umanizzata.
Ha bisogno di gesti, di segni, di
piccoli simboli a cui l’uomo possa fare riferimento e che possa “toccare”. Perché
attraverso il contatto una preghiera
si appassiona e diventa la preghiera
delle emozioni.
E così l’abito di rito, lo sguardo
di quella statua, i piedi nudi sull’asfalto, i buchini di un cappuccio che
rendono difficile vedere il mondo (ma che ci aiutano a coglierne l’essenziale),
il legno pesante di quella sdanga sulla spalla, sono tutti simboli concreti che
aiutano l’uomo ad avvicinarsi a Dio e a farsi veicolo di fede per gli altri
uomini.
L’uomo ha bisogno di questi punti
di riferimento.
Chi di noi mentre prega davanti
alla immagine della nostra Addolorata non ha mai sentito il bisogno di incrociare
il suo sguardo rassegnato?
Chi durante la Processione dei
Misteri non ha mai desiderato di avvicinarsi alle statue per toccarle, per creare un contatto?
Quale confratello, varcando quel
Portone a piedi scalzi, non ha mai pensato di essere parte di un pezzettino
minuscolo della nostra storia tarantina, del patrimonio della nostra città e
della nostra cultura?
Chi di noi davanti al Portone del
Carmine non si è mai soffermato ad osservare i segni delle bussate del bordone
del troccolante, viaggiando con la mente agli anni passati?
Questa è la nostra Pietà Popolare ed è nel tempo di Quaresima che si fa sempre
più percepibile per noi Confratelli e Consorelle del Carmine il vero senso che
le nostre tradizioni hanno come veicolo di fede e sincera espressione di quella
Pietà.
È “…il frutto della cultura di un popolo che esprime la propria fede…”.
La stessa che probabilmente Don
Calò 250 anni fa ha voluto esprimere donando
all’Arciconfraternita Quei due preziosi Simulacri, veri patrimoni della nostra
fede, e che noi ancora oggi testimoniamo portandoli in processione con
devozione il Venerdì Santo.
Come Dio stesso si è fatto Uomo
per poter comunicare con l’uomo, così l’uomo ha bisogno della Pietà Popolare
per meglio entrare in comunione con Dio e per comunicarla agli altri uomini.
È un dono che l’uomo fa a se
stesso e agli altri…e così un passo delle Scritture diventa attuale, una semplice
preghiera diventa commozione, Quella Corona di spine inizia davvero a pungerci
l’anima e Quel Cuore trafitto all’improvviso ci pulsa nel petto.