giovedì 6 marzo 2014

Valeria Malknecht

Era da poco iniziato gennaio, l’Epifania “…le feste aveva portato via…”, e già pensavo e scrivevo dell’attesa della Quaresima, di quel 5 Marzo.
Sembrava così lontano, ma eccolo qui, è già diventato questo 5 marzo.
Più di un mese è passato da allora, tante cose sono accadute in questo tempo di attesa che per me è stato ricco di momenti di prova e di emozioni contrastanti.

I coriandoli sparsi per le strade ed una piccola Biancaneve per mano al suo papà, questa mattina mi hanno ricordato che oggi è Martedì Grasso, l’ultimo giorno di carnevale.
Eppure sembro quasi non accorgermi che è carnevale.
Ora mi viene solo in mente che il tempo di attesa della Quaresima cede il passo al Tempo di Quaresima vero e proprio.

Oggi, martedì 4 marzo, si sono concluse le Quarantore di adorazione, meditazione e preghiera dei fedeli al S.S. Sacramento.

I Confratelli e le Consorelle si sono svestiti del loro quotidiano e sono tornarti a vestire orgogliosamente l’Abito di Rito e lo Scapolare.
Ciascuno, nel silenzio dei propri imperscrutabili pensieri, accarezzando le medaglie dei rosari, si è inginocchiato ai piedi dell’Altare, abbandonandosi alla contemplazione: “Eccomi, questa è la mia vita. Sono imperfetto, sono fragile, forse non sarò proprio il figlio ideale, ma sono qui. Ti chiedo perdono e Ti affido ciò che più amo al mondo”.
Le ginocchia non fanno male questa volta, non vacillano. Anzi, vogliono continuare a restare piegate in segno di rispetto e di sincero pentimento.

Indossare il nostro Abito ed il nostro Scapolare, come abbiamo fatto in queste ore di preghiera, non è un rituale metodico e fine a se stesso.
Tutt’altro.
È una tangibile testimonianza che l’uomo rende a Dio della propria fede.
Non si tratta solo di stoffa sapientemente cucita e imbastita per far vedere agli altri che si fa parte di una comunità.
Perchè è per mezzo di quella stoffa che l’uomo imperfetto testimonia a Dio, a se stesso e agli altri uomini il legame con la spiritualità ed il senso della propria fede.
È la pietà popolare.

La liturgia di questa sera ci propone di riflettere proprio su questo.
Come la pietà popolare possa farsi veicolo per evangelizzare le genti.
Ed il punto di partenza di queste riflessioni sono alcuni passi dell’ “Esortazione apostolica Evangelii Gaudium” di Papa Francesco.


‹‹…ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide. L’essere umano «è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso…».

‹‹…Si tratta di una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei semplici». Non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum. È «un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa…».

‹‹…porta con sé la grazia … dell’uscire da sé stessi e dell’essere pellegrini: «Il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto di evangelizzazione»..

La spiritualità, quindi, per essere compresa davvero dall’uomo e per essere a sua volta trasmessa agli altri uomini, ha bisogno di essere concretizzata ed umanizzata.
Ha bisogno di gesti, di segni, di piccoli simboli a cui l’uomo possa fare riferimento e che possa “toccare”. Perché attraverso il contatto una preghiera si appassiona e diventa la preghiera delle emozioni.
E così l’abito di rito, lo sguardo di quella statua, i piedi nudi sull’asfalto, i buchini di un cappuccio che rendono difficile vedere il mondo (ma che ci aiutano a coglierne l’essenziale), il legno pesante di quella sdanga sulla spalla, sono tutti simboli concreti che aiutano l’uomo ad avvicinarsi a Dio e a farsi veicolo di fede per gli altri uomini.

L’uomo ha bisogno di questi punti di riferimento.
Chi di noi mentre prega davanti alla immagine della nostra Addolorata non ha mai sentito il bisogno di incrociare il suo sguardo rassegnato?
Chi durante la Processione dei Misteri non ha mai desiderato di avvicinarsi alle statue per  toccarle, per creare un contatto?
Quale confratello, varcando quel Portone a piedi scalzi, non ha mai pensato di essere parte di un pezzettino minuscolo della nostra storia tarantina, del patrimonio della nostra città e della nostra cultura?
Chi di noi davanti al Portone del Carmine non si è mai soffermato ad osservare i segni delle bussate del bordone del troccolante, viaggiando con la mente agli anni passati?


Questa è la nostra Pietà Popolare ed è nel tempo di Quaresima che si fa sempre più percepibile per noi Confratelli e Consorelle del Carmine il vero senso che le nostre tradizioni hanno come veicolo di fede e sincera espressione di quella Pietà.
È “…il frutto della cultura di un popolo che esprime la propria fede…”.
La stessa che probabilmente Don Calò 250 anni fa ha voluto esprimere donando all’Arciconfraternita Quei due preziosi Simulacri, veri patrimoni della nostra fede, e che noi ancora oggi testimoniamo portandoli in processione con devozione il Venerdì Santo.


Come Dio stesso si è fatto Uomo per poter comunicare con l’uomo, così l’uomo ha bisogno della Pietà Popolare per meglio entrare in comunione con Dio e per comunicarla agli altri uomini.

È un dono che l’uomo fa a se stesso e agli altri…e così un passo delle Scritture diventa attuale, una semplice preghiera diventa commozione, Quella Corona di spine inizia davvero a pungerci l’anima e Quel Cuore trafitto all’improvviso ci pulsa nel petto.