venerdì 11 luglio 2014

Claudio Capraro 

La notte insonne per colpa del caldo, delle zanzare ma soprattutto dell’emozione.

Intanto nel soggiorno era già tutto pronto e appeso: camice, mozzetta, scapolare. Dopo le prove “a puntate” a casa di Rita Greco, la mattina seguente avrei avuto l’emozione di indossare tutto insieme. 

Sveglia presto, caffè, mia madre e mia sorella che mi accompagnano in macchina in via Giovinazzi mentre papà ci segue da lassù. Chissà cosa avrebbe provato se ci fosse stato. In fondo lui era il colpevole di tutto quello; lui che mi aveva trasmesso questa “malattia” e in famiglia non avevamo una tradizione in questo senso. 
Su nei saloni a vestirmi, impacciato nei movimenti ma coadiuvato dai collaboratori.

Poi giù di corsa che sta per cominciare la funzione. La foto in cappellina, sotto il quadro della Madonna del Rosario, e poi in Chiesa: cappello, mozzetta e scapolare sulle mani. E Lei li che sembrava guardasse solo me. E li fu la vera scintilla; li mi innamorai di Lei. Un amore madre/figlio figlio/madre. Senza mai un dubbio, senza mai un ombra. 

Il caldo. La nostra Chiesa strapiena. I ventilatori in serio affanno, sollievo solo per chi era a pochi centimetri. Le gocce di sudore che scendevano lungo la spina dorsale facendo il solletico. 
La candela accesa in mano. L’aggregazione: l’imposizione di scapolare e mozzetta e poi di nuovo in cappellina per sistemarsi in fretta e tornare in chiesa.

Le donne con i ventagli sventolati freneticamente; gli uomini con le camice chiazzate. Il consiglio in giacca e cravatta. Il padre spirituale con i paramenti più preziosi. 

Il “prosit”, i baci e gli abbracci alla fine della funzione. Nicola De Florio che aveva sfornato un'altra classe. Il gingerino di “zio Gino” che servito a meno 30° centigradi provocava seri problemi all’apparato digerente. 
A casa, un pranzo veloce e poi risistemare il borsone per il pomeriggio. 
E di nuovo nell’oratorio a vestirsi. Gli auguri di quelli che man mano arrivavano per cambiarsi e che ti ricordavano che il tuo posto quel giorno era “’nnanz nnanz”. 

La processione; l’uscita dal portone e la piazza colma di gente. Il sole ancora alto. La statua che per noi che eravamo avanti era un puntino lontano. La sosta a “San Giovanni di Dio”, un luogo fondamentale nella mia vita, il cammino che riprende. 

I cassonetti che emanano effluvi fastidiosi per le narici; le macchine parcheggiate nonostante i divieti. 
La preghiera col “fischio” di padre Caracciolo a San Francesco, le candele da accendere (ancora non c’erano le chianche, ma solo asfalto) ma attenzione alle mozzette! 

Il rientro, le campane che suonano a distesa, le luminarie in piazza; l’abitino in dono per ogni partecipante alla processione. Il Suo rientro. 

Su a rivestirsi, un passaggio veloce e dissetante al bar Trento e poi a casa a dormire che non ci sarebbero state zanzare e caldo ad impedirmelo.