martedì 21 febbraio 2017

Benedetto Maria Mainini

Era il 20 febbraio 1743, esattamente duecentosettantaquattro anni fa. Erano le 16,30 del pomeriggio, sereno, calmo. Ad un tratto… le case iniziano a muoversi, un sinistro boato echeggia per i vicoli… ‘U tramòte!!!” Il terremoto! Tre forti scosse di magnitudo compresa tra sesto e settimo grado della scala Richter, con epicentro nel Canale d’Otranto, provocarono morte e distruzione in Grecia e nel Salento.

E si: non ci siamo fatti mancare proprio nulla, anche un terremoto di tremende proporzioni!

Passato alla storia come il “Terremoto di Nardò”, il sisma si fece sentire anche dalle nostre parti, e in maniera piuttosto forte. Nel volume di Mario Baratta, “I terremoti in Italia”, egli dice che “il terremoto d’Oriente del 1743 fu rovinoso o quasi in terra d’Otranto…Nardò più degli altri paesi della penisola salentina risentì rovine”. Infatti la comunità neretina fu la più martoriata dalla furia del movimento tellurico, dove l’intensità raggiunse il nono grado della scala Mercalli. Il numero esatto delle vittime resta un mistero: secondo il notaio De Carlo si ebbero 228 morti e 400 infortunati gravi, il Liber mortuorum della chiesa cattedrale neretina parla invece di 112 vittime (occorre tener conto però che non fu possibile estrarre dalle macerie tutte le vittime e che nei registri della mortalità non venivano considerati i bambini di età inferiore a 2 anni). Ingenti danni si verificarono a Sava (al Santuario della Madonna di Pasano), a Maruggio (alla Chiesa Madre, con il rosone completamente distrutto), a Lizzano (in buona parte del centro storico e al Castello marchesale, che subì una forte inclinazione), a Carosino (alla Chiesa di Santa Maria delle Grazie); a Manduria vi fu una sola vittima, come riporta il sacerdote Leonardo Trentini nella sua opera «Manduria Sacra».

A seguito del movimento tellurico, si generò anche uno tsunami nel Mediterraneo. In particolare nel porto di Brindisi le acque si ritirarono improvvisamente, ma non si conosce con precisioni gli effetti dannosi prodotti dal maremoto: la mancanza di documentazioni storiche è dovuta probabilmente al fatto che l’area costiera interessata direttamente dal fenomeno, quella compresa tra Brindisi e Santa Maria di Leuca, all’epoca era quasi disabitata per via delle numerose paludi.


Si ritenne che il numero di vittime fu comunque basso a fronte dell’intensità del sisma, tanto che in quasi ogni comunità si volle credere alla protezione dei propri Santi Protettori. Si rafforzò da qui, quindi, quello stretto legame folkloristico e religioso tra molte popolazioni salentine e la devozione ai Santi Patroni: a Nardò, ad esempio, nacque la ricorrenza del 20 febbraio in devozione a San Gregorio Armeno che si celebra ogni anno. Secondo la credenza popolare, si attribuisce al Santo il miracolo di aver salvato gran parte della cittadinanza. La leggenda narra che la statua di San Gregorio Armeno, posta sulla sommità del sedile cittadino di Piazza Salandra, abbia ruotato verso la direzione dell’epicentro, per sedare appunto il catastrofico sisma; a Manduria all’indomani del terremoto, dalla Confraternita di S. Leonardo e S. Sebastiano, fu commissionata la statua della Madonna Immacolata, detta Madonna del Terremoto, tuttora presente nella Chiesa di S. Leonardo. La popolazione di Manduria, per lo scampato pericolo, fece erigere, inoltre, nei pressi del Largo Osanna (ora giardino pubblico), una colonna con la statua in pietra dell’Immacolata. Sulla porta pubblica detta “Porticella”, dove oggi sorge l’attuale orologio, fu dipinto un affresco raffigurante il distrutto campanile della chiesa matrice e, tra le macerie, la mano protettrice della Vergine Immacolata.

E anche Taranto subì qualche danno, non tanti: qualche piccolo crollo, ma molta paura. A metà del XVIII secolo Taranto contava 11.526 abitanti: non si registrano nè vittime nè feriti. I danni più ingenti li subì solo la chiesa e il convento di San Francesco di Paola, allora situato fuori le mura. In una perizia redatta il 26 agosto 1743 da Lorenzo Agliarolo da Grottaglie, “magister murator”, conservata nell’Archivio Arcivescovile, per la riparazione della chiesa e del convento, si legge che “per la rovina accagionata dall’orribil terremoto sortito nel mese di febraio del corrente anno1743, il Convento, e chiesa dei PP. Minimi di questa città ritrovansi nella maggior parte nell’evidente pericolo di rovinare, e precisamente la detta chiesa trovasi notabilmente lesa, anziché rovinata nella lamia grande di mezzo, nella lamia laterale e nel muro laterale dalla parte della via pubblica.”

Poiché Taranto aveva subito pochissimi danni, mentre i dintorni contavano morti e feriti, tutti attribuirono all’intercessione dell’Immacolata la protezione della città; il Sindaco dell’epoca, Scipione Marrese, decise di onorare la Madonna con un triduo di preghiere da tenersi ogni anno nel mese di febbraio in Cattedrale.

Ma l’Immacolata fu venerata come Patrona minore della città, mettendola quasi in secondo piano dopo il Patrono principale S. Cataldo. Bisogna aspettare il 1943 perché l’Immacolata diventasse “Patrona Principale di Taranto insieme e come S. Cataldo”. Fu l’Arcivescovo Mons. Bernardi, che propose alla Sacra Congregazione dei Riti l’Elezione della Vergine a Patrona Principale di Taranto con S. Cataldo. La proposta fu approvata il 12 febbraio 1943 e il 20 dello stesso mese fu murata una lapide nella chiesa di S. Michele che ricorda l’evento.

Ma perché nella chiesa di S. Michele si custodisce il venerato simulacro dell’Immacolata?

Dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, al 1578, quando per la prima volta a Taranto viene eretta una confraternita con il titolo dell’Immacolata Concezione in una cappella della chiesa di S. Francesco d’Assisi, come ci fa sapere Ambrogio Merodio nella sua “Istoria Tarantina”: “Vi è ancora una devotissima compagnia sotto l’invocazione dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima Vergine, li fratelli della quale sono tutti persone nobili e civili, che hanno pensiero di questuare per la città per sovvenimento delli poveri carcerati, come anco di assistere alli condannati a morte”. Un secolo dopo l’erezione della confraternita, fu commissionata a Napoli la bella statua che giunse a Taranto nel febbraio del 1679, come recita il Merodio: “li sopraddetti fratelli fecero venire da Napoli una devotissima statua di detta purissima Madre di Dio, che fu ricevuta in Taranto come dono del cielo con generale processione nel mese di settembre del 1679”.

La statua, di legno, ha il volto di una giovane, con lo sguardo leggermente rivolto verso l’alto e col piede che schiaccia il dragone; le mani non congiunte sul petto, ma protese verso destra. È una caratteristica questa che ha visto numerose interpretazioni: la più famosa vuole che la Madonna spostò le mani verso destra per allontanare il terremoto del 1743 dalla città che era sotto la sua protezione. Una bella leggenda!

Col passare degli anni la devozione verso l’Immacolata aumentò e si rese necessario una sede più ampia. Nella seconda metà del ‘700 la Confraternita si trasferì nella vicina chiesa di S. Michele, mentre il simulacro della Vergine fu affidato alle monache claustrali dette Cappuccinelle, che abitavano l’attiguo convento della chiesa di S. Michele; il convento di S. Francesco d’Assisi, intanto, fu incorporato dal demanio dello stato, mentre la statua della madonna restò nel monastero delle Cappuccinelle fino alla sua chiusura, avvenuta nel 1861 o nel 1864. Dopo ciò fu sistemata sull’altare maggiore della chiesetta di S. Michele, dove si trova ancor’oggi.


E ancora oggi la cittadinanza tutta, nel mese di febbraio, onora l’Immacolata con un triduo di preghiere per ringraziarla della protezione che ha avuto e che ancora ha per la nostra Taranto. E non dimentichiamolo mai!!!