mercoledì 2 dicembre 2015

Un coinvolgente articolo del nostro amico Benedetto sull'apertura delle festività natalizie in chiave tutta tarentina e cataldiana. 

Benedetto M.Mainini


La festa di Santa Cecilia dà inizio alle tradizioni natalizie a Taranto. Come tutti gli anni, anche quest'anno la levataccia si è fatta sentire, ma ne è valsa la pena: alle 3,00 ci siamo incontrati (pazzi!) per ascoltare le prime note delle pastorali suonate dalla banda “Lemma” e per assaggiare le prime pettole. 

Insomma: è stata la sveglia della tradizione!

Taranto ha onorato la Patrona dei musicanti nella Basilica Cattedrale, dove dal 1995 si conserva un bel simulacro in legno di S. Cecilia, opera dello scultore alto-atesino Thomas Niederkosler e donato dalla famiglia Zicari;

Santa Cecilia è la protettrice dei musicanti, anche se in realtà non sapeva nulla di musica! Tutto nacque nel XV secolo, da una falsa interpretazione di un brano della Passio in cui, accennando al festino delle sue nozze con il nobile Valeriano, si narra che “cantantibus organis” (mentre gli strumenti suonavano) cecilia “in corde suo soli Domini decantabat” (nel suo cuore cantava solo al Signore). Ma il testo fu trascritto senza la parte “in corde suo”, sicché l’omissione fece intendere come una vera e propria abilità musicale della Santa quella che invece veniva descritta come una sua melodia interiore. Santa Cecilia, appartenente alla nobile famiglia dei Cecili, è una santa molto venerata dalla Chiesa e il suo culto si diffuse subito, a partire dal V secolo, quando il suo nome venne introdotto nel canone della liturgia romana e ambrosiana. Cecilia aveva convertito il suo sposo Valeriano e il fratello di questi Tiburzio. Questi, con Cecilia, si dedicavano alla sepoltura dei cristiani uccisi. Il prefetto della città fece arrestare i due giovani che, essendosi rifiutati di sacrificare agli dei, furono condannati a morte. Massimo, il sottufficiale incaricato di giustiziarli, impressionato dalla gioia che si leggeva loro in faccia davanti alla morte, volle essere battezzato. Il prefetto fece uccidere anche lui. Tutti e tre furono sepolti da Cecilia. Il prefetto fece arrestare anche Cecilia e, di fronte al rifiuto di piegarsi agli dei, fu decapitata. 

Fin qui la Passio. Ma la storia ci riporta un fatto avvenuto nel 1599 quando il cardinale Sfondrati, titolare della basilica di Santa Cecilia, compì la ricognizione del corpo della Santa; aperto il sarcofago venne trovato all’interno l’arca di cipresso in cui venne sepolta Cecilia da papa Pasquale I nell’821, quando decise di ampliare la basilica di Trastevere (sorta sul luogo della casa di Santa Cecilia) e, in seguito a un sogno, ne rintracciò il corpo, che si credeva trafugato dai Longobardi. Dentro l’arca di cipresso fu rinvenuto il corpo incorrotto della martire, coperto di un velo di seta ancora intriso di sangue sopra l’abito tessuto con fili d’oro; il corpo non giaceva supino, ma coricato sul lato destro, come se dormisse. Subito fu chiamato lo scultore Stefano Maderno perché facesse un disegno del corpo della martire e poi se ne servì per modellare la bella statua marmorea che ancora oggi si ammira nelle catacombe di San Callisto.

Dunque da oggi, per noi Tarentini, inizia il periodo natalizio, lungo ben 46 giorni che si concluderà con l’Epifania. E in questo lungo periodo regnano incontrastati appunto le pastorali, che diffondono letizia nel cuore, e le pettole, che infondono gioia al palato.

Le pastorali tarentine hanno origine nel 1870 quando un Capitano d’Artiglieria, Giovanni Ippolito, compose la prima pastorale che la storia cittadina ricordi. Egli la compose nell’anno in cui diresse il concerto bandistico di Taranto. Dopo Ippolito, nel 1880, il maestro Francesco Battista compose due pastorali intitolate “Pastorale n.1” (nota per il testo “Torna Natal”) e “Pastorale n.2”. Seguì il maestro Gennaro Caggiano, fratello della poetessa e ispettrice scolastica Anna, e nel 1904 il maestro clarinettista Francesco De Benedictis (1855-1933), ricercatissimo solista e direttore della banda di Montemesola. Seguirono Giacomo Lacerenza, che compose due pastorali nel 1921 e nel 1922 intitolate anch’esse “Pastorale n.1” e “Pastorale n.2”, Domenico Colucci, che compose la pastorale intitolata “Nuit de Noel”, Carlo Carducci, Giovanni Bembo, Ezio Giorgio Vernaglione e altri fino al nostro Giuseppe Gregucci; degna di menzione è la bellissima pastorale composta dal Maestro Dino Milella, un’elegante suite natalizia.

Le pettole sono delle frittelle (dal latino pittula, frittella, che a sua volta deriva da pitta, focaccia) che per tradizione vengono consumate in questo lungo periodo di feste. In realtà ci sono giorni fissi, secondo la tradizione, in cui consumare le pettole: oggi, il 25 novembre per Santa Caterina, il 7 dicembre per la Vigilia dell’Immacolata, giorno tra l’altro dedicato alla preparazione nelle case del Presepio, la Vigilia di Natale, a Capodanno, all’Epifania. Ma la bontà di questa semplice frittella è tale da conquistarsi un posto sulle tavole di…ogni giorno di questo periodo, con buona pace per il nostro fegato! Ma, tant’è: Natale viene una volta l’anno.

Dunque le pettole si preparano con i prodotti tipici della nostra terra: la farina e l’olio d’oliva. Si amalgamano con un pizzico di sale e lievito di birra. È il dolce dei poveri, per dirla alla Nicola Caputo, il dolce che i nostri avi ci hanno consegnato. La pastella, presa a cucchiaiate, viene immersa nell’olio bollente dove assume le forme più strane. Poi vanno mangiate subito, ben calde, ‘a tradetòre, oppure spolverate di zucchero, o di miele, o di vin cotto. Naturalmente non sono solo questi i dolci natalizi: abbiamo le carteddàte, le sanacchiùdere e le diénte de San Geséppe. Una volta si facevano anche le fave de zacchere, dolci di pasta reale. Le pettole si preparano molto presto la mattina: un tempo, ma c’è ancora qualche famiglia che rispetta questa tradizione, già prima dell’alba le donne impastavano vigorosamente la pasta, la mettevano in una grande coppa di terracotta smaltata all’interno e coprivano il tutto con la manta, una spessa coperta di lana, per permettere alla pasta di lievitare. Poi, quando era il momento, si mettevano a friggere nell’olio bollente.


Ma come nacquero le pettole? La tradizione ci tramanda due leggende. Si narra che un giorno una donna si alzò all’alba e decise di preparare il pane caldo per i suoi figli. Mentre l’impasto lievitava, la donna si affacciò alla finestra per guardare e sentire la banda che passava. Appena si girò vide che l’impasto era lievitato troppo e allora, senza perdersi d’animo, prese l’olio, staccò piccoli pezzi di pasta e li mise a friggere. Poi li diede ai suoi figli che chiesero il nome di quello strano pane. “Si chiamano Pettole”. Disse la mamma ai figli curiosi di tale cibo. Dopo un poco di stupore il più piccolo dei figli chiese: “E ce sont?” e la mamma: “Le cuscine du Bammine”, cioè il guanciale di Gesù Bambino.

Un’altra leggenda è attribuita a San Francesco d’Assisi: si racconta che una donna, udendo del trambusto per strada, abbandonò l’impasto pronto per panificare. Uscita di casa vide che era giunto a Taranto S. Francesco e, presa dalla visione del Santo, dimenticò l'impasto. Al rientro a casa trovò la pasta molto cresciuta. Contrariata per l'accaduto, gettò l'impasto in una pentola di olio bollente; a contatto con l’olio bollente le frittelle diventarono gonfie come zampogne e la donna potè così sfamare i suoi figli.

Viviamo pienamente questo lungo periodo di feste, in santa pace e fratellanza con tutti!!!