Luciachiara Palumbo ci propone un pezzo di Nicola Caputo relativo al furto sacrilego che nel 1983 venne compiuto nella nostra Cattedrale
Il telefono squillava ripetutamente e a dirla tutta non sapevo cosa fare. Rispondo o non rispondo? Risposi. Prima però guardai l’orologio: le 7 e 20! Cribbio, chi può essere a quest’ora? Dall’altra parte una voce concitata:
- Vieni subito… Hanno rubato San Cataldo!...
Ancora intronato di sonno com’ ero pensai di aver capito male.
“Come?...”
- Hanno rubato San Cataldo, ho detto…- insisteva la voce dall’altra parte.
“Ah, ho capito… Hanno rubato in San Cataldo, cioè nella Basilica…
- Ma sei sordo o stai ancora dormendo?!... Sto dicendo che hanno rubato la tatua di San Cataldo. Sì, quella d’argento che sta, anzi stava, nel Cappellone… Corri!
La voce imperiosa del capocronista mi reclutava quasi all’alba per un servizio giornalistico che già si preannunciava da edizione straordinaria. Non riuscii a vestirmi del tutto. Uscii senza cappotto, senza avvertire nessuno di casa, senza neppure prendere il caffè. M’infilai in macchina e raggiunsi la basilica in pochi minuti. Con una velocità da brividi, sorpassando in maniera assassina lunghe file di auto, ignorando semafori rossi e stop. Giunsi in cattedrale prima delle forze dell’ordine.
Il cappellone era irriconoscibile. Devastato, quasi sottosopra. I banchi spostati, il pavimento ricoperto di un’infinità di oggetti piccoli e grandi. Guardai su verso la nicchia del Patrono: era vuota, desolatamente vuota. Mons. Michele Grottoli, il parroco, mi venne incontro quasi di corsa. Ci abbracciammo, poi insieme crollammo, piangendo, su uno dei banchi. I nostri singhiozzi si univano ai rintocchi funebri, cadenzati dal campanone della cattedrale che suonava a morto. Il caro, indimenticabile Nicolino Insogna, il tuttofare della basilica tarantina, era anche lui in lacrime, affranto, disperato, senza parole
La signora Carmela Belmonte a quei tempi toccava la settantina. Abitava n un palazzetto proprio di fronte alla fiancata sinistra della Basilica. In quella casa la signora Carmela era nata, era cresciuta, si era sposata, aveva avuto i suoi figli. E li è morta or non è molto. Mi raccontava che quella sera, poco prima di mezzanotte, da dietro i vetri del suo balconcino aveva dato no sguardo alla Chiesa, così come faceva sempre, si era segnata, raccogliendosi poi nella sua solita breve preghiera a San Cataldo. Una preghiera tutta tarantina che aveva imparato dalla madre:
“San Catàvete mie bbenigne, de priàrte no sso digne; cum’a nnostre Prutettore preje Tu nnostre Signore: libberanne, San Catàvete, da fragélle e da tramòte, da fulmen’e ttembéste da uérre fame e ppeste”.
La popolare preghiera-ricordata da Giuseppe Cassano in “Radeche vecchie”, implorava sì San Cataldo di liberare il popolo da fulmen’e ttembéste (visto che quella sera sulla città si era abbattuto una specie di diluvio universale), ma avrebbe forse dovuto invocare il Santo Protettor di liberarci anche dai ladri che a quell’ora, proprio approfittando del temporale, stavano probabilmente già attuano il loro piano criminoso.
Il telefono squillava ripetutamente e a dirla tutta non sapevo cosa fare. Rispondo o non rispondo? Risposi. Prima però guardai l’orologio: le 7 e 20! Cribbio, chi può essere a quest’ora? Dall’altra parte una voce concitata:
- Vieni subito… Hanno rubato San Cataldo!...
Ancora intronato di sonno com’ ero pensai di aver capito male.
“Come?...”
- Hanno rubato San Cataldo, ho detto…- insisteva la voce dall’altra parte.
“Ah, ho capito… Hanno rubato in San Cataldo, cioè nella Basilica…
- Ma sei sordo o stai ancora dormendo?!... Sto dicendo che hanno rubato la tatua di San Cataldo. Sì, quella d’argento che sta, anzi stava, nel Cappellone… Corri!
La voce imperiosa del capocronista mi reclutava quasi all’alba per un servizio giornalistico che già si preannunciava da edizione straordinaria. Non riuscii a vestirmi del tutto. Uscii senza cappotto, senza avvertire nessuno di casa, senza neppure prendere il caffè. M’infilai in macchina e raggiunsi la basilica in pochi minuti. Con una velocità da brividi, sorpassando in maniera assassina lunghe file di auto, ignorando semafori rossi e stop. Giunsi in cattedrale prima delle forze dell’ordine.
Il cappellone era irriconoscibile. Devastato, quasi sottosopra. I banchi spostati, il pavimento ricoperto di un’infinità di oggetti piccoli e grandi. Guardai su verso la nicchia del Patrono: era vuota, desolatamente vuota. Mons. Michele Grottoli, il parroco, mi venne incontro quasi di corsa. Ci abbracciammo, poi insieme crollammo, piangendo, su uno dei banchi. I nostri singhiozzi si univano ai rintocchi funebri, cadenzati dal campanone della cattedrale che suonava a morto. Il caro, indimenticabile Nicolino Insogna, il tuttofare della basilica tarantina, era anche lui in lacrime, affranto, disperato, senza parole
La signora Carmela Belmonte a quei tempi toccava la settantina. Abitava n un palazzetto proprio di fronte alla fiancata sinistra della Basilica. In quella casa la signora Carmela era nata, era cresciuta, si era sposata, aveva avuto i suoi figli. E li è morta or non è molto. Mi raccontava che quella sera, poco prima di mezzanotte, da dietro i vetri del suo balconcino aveva dato no sguardo alla Chiesa, così come faceva sempre, si era segnata, raccogliendosi poi nella sua solita breve preghiera a San Cataldo. Una preghiera tutta tarantina che aveva imparato dalla madre:
“San Catàvete mie bbenigne, de priàrte no sso digne; cum’a nnostre Prutettore preje Tu nnostre Signore: libberanne, San Catàvete, da fragélle e da tramòte, da fulmen’e ttembéste da uérre fame e ppeste”.
La popolare preghiera-ricordata da Giuseppe Cassano in “Radeche vecchie”, implorava sì San Cataldo di liberare il popolo da fulmen’e ttembéste (visto che quella sera sulla città si era abbattuto una specie di diluvio universale), ma avrebbe forse dovuto invocare il Santo Protettor di liberarci anche dai ladri che a quell’ora, proprio approfittando del temporale, stavano probabilmente già attuano il loro piano criminoso.