giovedì 2 ottobre 2014

Valeria Malknecht 

La croce: segno di contraddizione
di Salvatore Fallone
Nazzecànne Nazzecànne, maggio1990


" Giovedì Santo, ore 15, le poste di “città” e di “campagna” sono quasi tutte allineate, anche se per le singole uscite occorre tempo. Quando i portoni della Chiesa del Carmine si aprono è la “Settimana Maggiore” tarentina.

I confratelli, che sul gelido pavimento dell’Oratorio hanno assaporato il primo indefinibile impatto con la posa dei piedi nudi, sono ora sulle soglie degli androni. Le pulsazioni aumentano, un brivido di freddo si scarica sulla schiena, una sudorazione inspiegabile bagna impercettibilmente il cappuccio. Una fiammata di calore arrossa il viso: i confratelli non sono più soli, ma sono con la Città, la Pasqua Tarentina.


I “perdoni” si avviano a scavalcare il primo gradino e sono invasi dal timore di quello che c’è sulla strada, nel mondo. E si stringono ancora di più quasi a fondersi, concordano sulle preghiere da recitare e su chi dei due deve iniziare. Hanno quasi paura della folla che attende, ma l’applauso li fa sentire sicuri e veramente fratelli.

Superati i gradoni, non senza la tradizionale spinta “a camminare” dei responsabili della Congrega, odono già in lontananza le prime note “delle marce” provenienti dalle mangiacassette e cominciano “le nazzicate”. Imboccata via D’Aquino ci si attarda in attesa che nelle Chiese da visitare terminino le funzioni liturgiche della “Cena del Signore”, e con la speranza che arrivi subito la banda musicale per godersi “dal vero” Amleto, a Vittorio Emanuele, Giovedì Santo e, come somma “beatificazione”, Mamma di Rizzola. Nel frattempo via D’Aquino, in entrambi i sensi di marcia, è quasi una processione di coppie “nazzicanti”: questo è l’aspetto esteriore del “pellegrinaggio”.

Superata però via D’Aquino si entra nel caos del traffico: il “pellegrinaggio” diventa più penitenziale. La folla, in costante progressivo incremento, calca, spinge, mentre i bambini si impauriscono di fronte agli incappucciati e sorretti dagli incoraggiamenti dei grandi si avvicinano, toccano l’abito, chiedono. È commovente vedere i “grandi” di ogni ceto sociale, piegarsi per baciare il Crocifisso che pende dalla corona del rosario (ognuno lo recita come può e come sa, ma è comunque preghiera che innalza a Maria e, quindi, al Padre).

I confratelli sanno che Cristo, nel ricordo storico, non è ancora morto e che “al Sepolcro” si visita e si adora il Cristo vivente e trionfante nella Eucaristia, ma tutti vivono la vigilia della “notte in cui fu tradito”.

Tutti sentono, molti non si spiegano la contraddizione del Cristo che allo “spezzar del pane” si offre “pane di vita” per l’eternità a tutte le genti di tutte le latitudini ed il mondo già lo tradisce. È il primo tradimento di chi è venuto a salvare e che lo vede venduto per 30 denari. Poi arriva il triplo tradimento di Pietro in preda allo smarrimento ed alla paura. Al sublime atto di amore dell’Uomo Dio il mondo incredulo nei benefici del cambiamento risponde, e l’Uomo Dio accetta il dramma della crocefissione.

Nessuno ancora crede nella Resurrezione come intima possibilità di conversione, ma i confratelli in pellegrinaggio pregano per credere, per resuscitare e godere della Pasqua.

All’inginocchiatoio della prima Chiesa da visitare ci si arriva fisicamente stanchi e con sensazioni spirituali di collegamento a Dio difficilmente spiegabili. Ognuno, finita la recita del rosario (qualche volta anche disordinata per mancanza di abitudine), sente la passione di Cristo e, alzando gli occhi al tabernacolo, riccamente incastonato, comprende l’immenso amore del Salvatore e come può lo ringrazia innalzando preghiere modeste ma sentite per i propri cari, per gli amici e per i nemici (non si può alzarsi dall’inginocchiatoio se non in pace con tutti).

Mentre si è in contemplazione s’ode all’orecchio “l’Ave Maria” della posta che segue, e fatta la genuflessione e gli abbracci di rito si esce per visitare l’altra Chiesa.

Terminato “il giro” ci si avvia, sempre lentamente, al rientro al Carmine. Stanchi per il lungo andare, intirizziti per il freddo prodotto dal calar del vento che preannuncia la notte imminente, turbati dalla meditazione dell’amore di Cristo ci si avvicina all’ultimo inginocchiatoio, quello del Carmine, con le ginocchia rigide, la schiena dolorante e si recita l’ultimo credo del pellegrinaggio dell’anno.

Si salgono con difficoltà i gradini che portano all’Oratorio, ci si scambia i “prosit”, ci si abbraccia, si cambia d’abito e ….. già il pensiero è a San Domenico, alla bellissima statua raffigurante l’Addolorata.

La posta si attarda nell’Oratorio, nonostante la mancanza di spazi, ed ognuno chiede al vicino se l’indomani parteciperà alla processione dei Misteri di Cristo.

Si saluta affettuosamente il compagno “di posta” e si ritorna a casa, sempre fra tantissima gente, col pensiero al Calvario, “il regalo” dell’uomo a Cristo Amore, ed ognuno vede le tre croci e pone se stesso su quella di destra con la speranza di essere, alla fine della giornata terrena, con “Lui” in Paradiso.

Il primo Venerdi Santo: tre croci, una Madre col cuore spezzato dal dolore, poche pie donne, dodici umili frastornati ed impauriti. Sono trascorsi duemila anni e quel povero piccolo nucleo ha sconvolto il mondo: non più padroni e servi, ma tutti figli di Dio.

La Croce segno di contraddizione fa nascere dal dolore l’amore e l’eternità."


“…la Croce, segno di contraddizione, fa nascere dal dolore l’amore e l’eternità…”
Se si cerca sul dizionario la parola “contraddizione” si scoprirà che ad essa corrispondono termini come “controsenso, discordanza, diversità, incongruenza, paradosso”.
Mentre fra i contrari figurano parole come “concordanza, consonanza, corrispondenza”.
Amore e dolore sono due parole discordanti, eppure stranamente concordanti, quasi conseguenziali.
Lo sono ai giorni nostri e lo sono state da sempre, fin dal sacrificio della Croce.
Perché da una parte, sono simbolo del controsenso e del paradosso del soffrire e morire per amore di qualcuno.
Da un’altra, rivelano la inspiegabile corrispondenza che da sempre c’è fra il sentimento del dolore e quello dell’amore.
Gli opposti che si attraggono e che unendosi si completano a vicenda; le due facce della stessa medaglia; l’altra parte della luna, quella buia e che non viene illuminata dal sole, ma che sappiamo che c’è, esiste.
Ebbene, credo che il simbolo della Croce racchiuda in sé entrambi questi due antitetici significati.
Perché quello della Croce è il simbolo per eccellenza del “Sacrificio” per amore.


“…la Croce, segno di contraddizione…”
L’immagine di un uomo che muore in un modo così atroce, quasi si contraddice con il senso di profonda dolcezza con cui Cristo commette questo suo sacrificio per salvare l’uomo.
Eppure è quel dono di sé al mondo, quel profondo dolore, che rende la Croce vero veicolo di amore.
“...dal dolore nasce amore ed eternità…”…e questo accade anche oggi.
Tanti uomini del nostro tempo sono altrettanto coraggiosi da donare se stessi, per amore.
Una madre mette al mondo i propri figli soffrendo. Eppure, dicono che sia l’amore più completo e sincero che un essere umano possa provare.
Un uomo, un padre di famiglia, lavora con sacrificio e rinunce, anche lontano da casa, pur di assicurare una vita ed un futuro dignitosi alla propria famiglia.
E, perché no, tanti confratelli durante l’anno rinunciano a tante cose, pur di poter indossare con fede la propria mozzetta.
Non sono anche questi segni tangibili di un sacrificio per amore?
In tutti questi casi la parola dolore fa dolcemente rima con amore. Il dolore di una rinuncia compensato dall’amore per un altro tipo di conquista.

La Croce, dunque, è segno di una salvezza e di un amore che passano attraverso il dolore.

Cristo ci da l’esempio di come questi due antitetici sentimenti, possano incrociarsi perfettamente.

Perché attraverso l’amore, il dolore viene esaltato e nobilitato.