Quando, sul finire di novembre, le note di Centofanti, di Bonelli e di Rizzola cedono il passo a quelle di “Lacerenza” e di “Ippolito”, allora è tempo di pastorali tarantine, è tempo di tirare fuori albero e presepi, è tempo di Santa Cecilia.
Anche se i più ostinati continueranno a commuoversi ascoltando le melodie struggenti di Mamma o di A Gravame, quando arriva il 22 novembre i tarantini tornano a desiderare di essere svegliati all’alba dalla Pastorale n. 1, di affacciarsi al balcone in pigiama ancora assonnati e di sentire già dal primo mattino l’inconfondibile odore di fritto delle pettole.
I tarantini tornano a desiderare di vivere il buono di questa città.
Perché c’è ancora la voglia di credere che Taranto, quella Taranto che non è solo fatta di morte, del lavoro che non c’è, di fuga di giovani, di tumori e di cronaca nera, esiste ancora.
La nostra identità “buona” vive ancora e ce lo ricordano anche le nostre tradizioni natalizie.
È nella cura che le donne ancora oggi dimostrano di avere per i propri cari quando, nella notte del 22 novembre, impastano e friggono le pettole.
È nel gusto inconfondibile di queste piccole frittelle, quando sono ancora calde con lo zucchero che “scrocchiola” fra i denti e che subito “fa natale”.
È nelle luci che ritroviamo per le strade, anche se un po’ più austere degli anni passati.
È nella “scusa” che questa ricorrenza ci offre per “staccare la spina” dalle preoccupazioni di tutti i giorni e vivere un bel momento insieme a familiari ed amici.
In un periodo come questo in cui le preoccupazioni per il difficile momento che sta attraversando il nostro Paese – e la nostra città - spengono ogni nostro entusiasmo di fare festa, o in cui l’avvicinarsi del Natale ci rende nostalgici nel ricordo magari di chi non è più qui con noi, è bello pensare che, nonostante tutto, le nostre tradizioni ci offrono l’occasione di vivere piccoli momenti di serenità.
C’è chi si ritrova con gli amici e con la propria famiglia, chi inizia a fare l’albero di natale e chi non vede l’ora di impastare le pettole perché, secondo me, cucinarle per i propri cari è una dimostrazione di affetto, un modo di prendersene cura, un modo di testimoniare la tradizione.
Personalmente le facevo anche quando vivevo ancora a Milano e friggevo chili e chili di pettole per gli amici, non solo del sud, ma anche del Nord.
Attraverso queste piccole frittelle, raccontavo loro cosa fosse per noi la festività di Santa Cecilia e quanto mi mancasse la mia città.
A tal proposito, per chi volesse cimentarsi, per cucinare le pettole non occorre essere Chef stellati.
Basta impastare 500 grammi di farina, con 350 ml circa di acqua tiepida, un cucchiaio scarso di sale, mezzo cucchiaino di zucchero e un cubetto di lievito.
Si impasta il tutto fino ad ottenere un composto liscio ed appiccicoso, si lascia lievitare fino a che il volume non triplica ed il gioco è fatto.
Il momento che mi piace di più è friggere la prima pettola.
La mia tecnica è prendere un po’ di impasto con un cucchiaio e farlo scivolare con il dito nell’olio.
Anche questo significa vivere una tradizione e tramandarla.
Anche questo significa, per me, volere bene alle persone per cui le cucino.
Come i riti della settimana santa sono uno dei pochi legami che restano fra questa martoriata città ed i suoi figli, così anche le tradizioni natalizie sono segno di una identità cittadina, di quel buono che ancora c’è della nostra città e che vale la pena di tramandare ai nostri figli.
Ci ricordano che Taranto non è fatta solo di cronaca nera o di crisi economica.
Le nostre tradizioni ci ricordano che qualcosa di buono c’è ancora.