Claudio Capraro
Le dimensioni di via Duomo non consentono, a differenza della larga via Anfiteatro, di poter vedere grandi porzioni di cielo. Alzando la testa quello che si riesce a scorgere è uno spicchio abbastanza piccolo, ma a differenza del percorso solito quest’anno avanziamo nel senso opposto, camminiamo verso est, verso levante, verso il punto da cui tra poco sorgerà pian piano il sole. Ed in effetti il nero cupo lascia il posto al blu scuro, che poi diventa blu, si schiarisce in bluette fino a diventare grigio. Non è proprio azzurro, o per lo meno non lo è ancora. La foschia della notte è ancora preponderante, man mano i raggi del sole scalderanno l’aria, la temperatura aumenterà e questa nebbiolina lattiginosa lascerà che il cielo diventi di un azzurro intenso. Quando arriviamo nei pressi della Rossarol, ormai la notte è terminata. La processione ha superato palazzo Calò e si avvia verso il ponte girevole, dietro sono rimaste le ultime due statue.
La tabella di marcia, puramente teorica vista l’originalità del percorso mai sperimentato prima dalla processione, dice che siamo in ritardo anche se non di molto. Le statue di Gesù morto e dell’Addolorata sono davanti al portone di palazzo Calò, vengono fatte girare, disposte una accanto all’altra come se dovessero entrare nell’androne. La banda tace; i fedeli anche. Il padre Spirituale, invita alla preghiera e al termine di questo veloce momento viene scoperta la lapide commemorativa posta su una delle colonne che contornano il portale del palazzo nobiliare.
Diverse le cose che passano per la mente in quel momento. E’ la mattina del 4 aprile 2015 ed esattamente lo stesso giorno di duecentocinquant’anni prima, venerdì 4 aprile 1765, venerdì Santo, quelle due statue uscirono per l’ultima volta da quel palazzo.
In quella posizione, o in una molto simile, invece dovettero trovarsi un anno prima le due statue la mattina del sabato santo del 1764, dopo aver concluso la processione organizzata dalla famiglia Calò, pronte a far rientro nella cappella privata. Dovevano trovarsi pressappoco così davanti al portone, sulle spalle dei portatori e con l’assistente spirituale dei Calò che recitava l’ultima orazione prima che i due simulacri facessero ritorno a casa. E forse proprio in quei momenti che Francescantonio pensava se e come poter perpetuare quella tradizione che il fratello di suo nonno aveva cominciato e che era arrivata sino a lui.
Si riparte. Si arriva alle fine di via Duomo. A sinistra le colonne doriche, il mare blu con i mercantili di tanti colori, il castello saldamente al suo posto. Gli spazi si allargano, la luce del sole inizia a scaldarci. Gran parte del corte processionale ha attraversato il ponte girevole, noi ci apprestiamo a farlo e così come è accaduto all’andata senza l’accompagnamento musicale delle bande. Un drone dotato sicuramente di fotocamera ci segue in alto dal cielo. Superiamo i giunti metallici del ponte. Quel ponte che, ritratto in decine di migliaia di cartoline e di fotografie in un tutt’uno con il castello, è l’immagine più nota della nostra città. Il trait d’union tra la città vecchia e quella nuova, tra le nostre origini ed il nostro presente.
Siamo tornati alle origini, in occasione di questa ricorrenza. Lo abbiamo fatto per diversi motivi, ma uno in particolare dovrebbe essere quello più importante e cioè che la nostra città possa con un colpo di coda, riprendere vita. La cosa strana è che non dovrebbe essere compito di una processione, tra l’altro penitenziale, o di una confraternita o di penitenti tutto questo, ma dovrebbero essere altri ad occuparsene, ma penso che se ci abbiamo provato vuol dire che sicuramente ce ne era bisogno. Una città vecchia ferita, i cui abitanti negli anni sono stati deportati, più o meno volontariamente altrove. Un quartiere in cui molto spesso molti tarantini hanno paura di avventurarsi, se non in occasioni particolari, temendo chissà cosa, proprio come i comandi alleati che nell’immediato dopoguerra avevano affisso sul ponte girevole un avviso di pericolo per i loro militari. Una Taranto vecchia che ha sentito parlare di tanti piani di risanamento, di recupero, che conosce bene il nome Blandino, ma che non ha mai visto concretizzarsi nulla di quanto previsto. Una Taranto vecchia in cui le istituzioni sono quasi del tutto assenti e gli unici uomini o donne in divisa, indossano la talare o il velo e sono visti dagli abitanti come esclusivo punto di riferimento.
Arrivati in via Matteotti, l’isola è ormai alle nostre spalle. Chissà se per altri duecentocinquant’anni o no. Se lo chiedono un po’ tutti. Le bande ricominciano a suonare. Il sole abbastanza alto, insieme all’ennesimo caffè, infonde agli ottoni e ai tamburi nuova energia. Il peso delle statue, ha segnato le spalle degli sdanghieri e delle forcelle. E’ uno dei momenti forse, dal punto di vista fisico, più duro, ma già sappiamo che quando saremo in vista del portone della nostra chiesa, tutto questo sarà un lontano ricordo.
Via Margherita e via D’Aquino sono piene di gente. Noi che siamo in ultima posizione, riusciamo nuovamente a scorgere tutte le altre statue ed i simboli. L’ultima volta era accaduto ieri sera su via Garibaldi. Il sole dritto in faccia ci abbaglia a ci costringe a tenere lo sguardo dritto davanti a noi.
Applausi in lontananza ci ridestano dal torpore nel quale ci aveva fatti piombare il dondolio della nazzicata. Evidentemente il troccolante ha bussato per tre volte al portone. La duecentocinquantesima edizione della processione dei Misteri, organizzata dalla Congrega del Carmine è giunta al suo epilogo. Noi siamo all’altezza dell’hotel Plaza e lentamente ci avviciniamo alla meta. Sappiamo che quelle che la banda alle nostre spalle eseguirà saranno le ultime marce funebri di questa processione e la volontà in ciascuno è quella di poterle godere fino in fondo.
I familiari ci sono accanto a sostenerci. I fedeli che numerosi riempiono i marciapiedi sono differenti da quelli che ci hanno accompagnato nel corso della nottata, ma un particolare gli accomuna tutti quanti: il raccoglimento e la preghiera.
Superata via Cavour ecco di nuovo le transenne per gli ultimissimi metri del percorso. Le forze dell’ordine cercano di tenere al di là di queste chi non è autorizzato, ma qualcuno sfugge sempre. Anche questa ulteriore differenza ha un sapore nuove, rispetto all’ingresso da via Massari in ombra degli anni passati, quest’anno proseguiamo su una via D’Aquino inondata dal sole.
Di nuovo il maxi schermo che riporta le immagini: le statue che sono già rientrate e sono state sistemate sui cavalletti all’interno della chiesa, il Crocifisso che si appresta ad entrare. La folla assiepata dietro le transenne, le bande che stremate stanno per eseguire l’ultima marcia.
E’ il turno di Gesù morto. Poi toccherà a noi entrare con la stessa marcia funebre. Jone di Petrella. Una marcia straziante con le sue note, la marcia con la quale fa il suo ingresso in chiesa la statua della Vergine Addolorata chiudendo la processione dei Misteri. Ed il pathos che queste note trasmettono, fanno vivere ogni volta emozioni diverse. Fanno riavvolgere nella mente un film durato un anno intero e che vede la sua conclusione in quel momento. Gregucci attacca; Gesù morto viene nazzicato dolcemente, subito dietro noi con la sua Madre vestita a lutto sulle nostre spalle. Tutti i presenti in piazza, sanno che stanno assistendo agli ultimi istanti di questa storica processione. Da lontano arriva il suono di una ambulanza, il brusio in sottofondo è cessato. Gesù morto comincia a muoversi e a fare il proprio ingresso in chiesa. Gli occhi arrossati dalla stanchezza, dal sole che li ferisce, dalle lacrime trattenute a fatica. Ci guardiamo. Ognuno mette la propria mano sulla spalla del compagno davanti a se. Ognuno cerca un contatto con il proprio fratello. Siamo una squadra, ma prima ancora siamo una famiglia.
Tocca a noi; le note raggiungono i toni più alti. Le lacrime ormai non si trattengono più. Entriamo in chiesa, subito dopo sentiamo il portone che viene chiuso alle nostre spalle. Le altre statue sui cavalletti, davanti a noi padre spirituale e priore ci aspettano. Il silenzio è totale. Giusto qualche parola secca, concisa che gli economi ed i collaboratori si danno per sistemare le ultime due statue che sono ancora sulle spalle dei portatori. Gesù morto viene girato. La Madre può guardare il volto del suo Figlio, ancora qualche istante in quella posizione e poi, molto controvoglia, la bara ornata di velluto nero viene affidata ai collaboratori per essere posta sui cavalletti; immediatamente dopo, sempre molto controvoglia, anche la statua della Beata Vergine Addolorata viene presa in cura dagli economi.
Ci si abbraccia, si piange, ci si saluta, ci si fanno gli auguri. Riprendere una posizione pienamente eretta non è semplice, come non è facile riuscire a camminare normalmente. Ci vorrà qualche minuto prima che il corpo si riabitui alla normalità. La preghiera ed il saluto finale e poi su a cambiarsi gli sdanghieri. Per le forcelle è più semplice, sfilati i guanti e slacciata la farfalla, si può far ritorno a casa, in attesa della veglia Pasquale quando potremo cantare gioiosi che Cristo Gesù è risorto!
Ci vorrà qualche giorno per capire cosa è successo. Per assaporare cosa si è fatto. In realtà è passato un mese esatto e ancora le sensazioni le sto vivendo pian piano. Abbiamo celebrato la messa di ringraziamento, abbiamo ricevuto l’attestato per la partecipazione, le prime foto e i primi video sono pronti. Abbiamo saputo come è stata apprezzata questa processione dagli abitanti della città vecchia, ma ancora ve lo giuro, ancora non sembra vero. Si è parlato spesso di un sogno, quello che abbiamo vissuto è stata realtà non un sogno, ma permettetemi di dire che non voglio essere svegliato, che a distanza di un mese voglio continuare a sognare perché ancora tutto quello che è accaduto non mi sembra vero.
La foto dell'Addolorata è di Naldi Schinaia
La foto della Cascata è di Federica Carbotti
si ringrazia per la concessione PORTODIMARETER
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