lunedì 30 novembre 2015

Valeria Malknecht

Vorrei scrivere di tradizioni, di quanto sia bello pensare che, anche quest’anno, siamo arrivati al tanto atteso 22 novembre. Vorrei scrivere di pettole, di amici che si ritrovano in strada a notte fonda, non per andare a ballare in discoteca, ma per vivere le tradizioni, ascoltando le note delle nostre pastorali.

Vorrei scrivere di madri e nonne che impastano pettole all’alba e di bambine che, a loro volta, cercano di imitarne l’esempio.

Vorrei scrivere di persone che, per questa occasione, si riuniscono attorno ad una tavola per fare “famiglia” (non solo quella composta da persone che hanno legami di parentela, ma anche quella fatta di amici, di gente speciale..la famiglia che ti scegli).

Vorrei scrivere dei ricordi dell’infanzia legati a questo periodo e di come ancora oggi, che non sono più una bambina, conservo quell’infantile desiderio di vedere mio padre che tira fuori dal soppalco l’albero di natale e gli addobbi.

Vorrei scrivere di tante cose belle e spensierate, legate all’attesa del natale.

Ma questi nostri tempi, che spensierati non sono, mi inducono a riflettere e a guardare alle nostre tradizioni cittadine sotto una luce un po’ diversa.

Cosa significa vivere la tradizione in una città di contraddizioni, in una nazione impaurita, in un’Europa ferita, in un mondo in cui facciamo fatica a riconoscerci fratelli, concittadini e conviventi?

Per alcuni, probabilmente, la risposta sarà scontata: vivere le nostre tradizioni potrebbe essere un modo come un altro per “andare avanti”, per “avere la scusa” di fare festa, per allontanarsi dai pensieri e dalle preoccupazioni quotidiane.

E, certo, non c’è mica nulla di male a pensarla in questo modo. Anzi, per fortuna ci sono queste occasioni per staccare un po’.

Stavolta, però, in questo periodo di buio e di ombre, credo che la risposta sia da cercare al di là delle apparenze.

Nel nostro piccolo, credo che le nostre tradizioni, a cominciare da quelle natalizie che ci apprestiamo a vivere, debbano essere un nostro punto di forza, l’indizio della presenza di una nostra identità che va oltre i fatti di cronaca che ci umiliano e ci distruggono.

E allora, ecco che organizzare una pettolata, ritrovarsi insieme per le strade della città, emozionarsi ancora assonnati alle prime note della Pastorale n. 1 di D’Ippolito, diventa un segnale di sopravvivenza. E diventa la risposta stessa alle brutture di ciò che ci circonda.

Perché tutto ciò non significa solo condividere un momento, ma riscoprirsi parte di un qualcosa.

Questo è quello di cui la gente ha bisogno. Essere parte, sentirsi parte di un popolo e di una identità, seppur nelle differenze.

Dunque preparare l’albero di natale, friggere le pettole, condividere insieme alle persone che amiamo questi momenti non vuol dire soltanto ripetere meccanicamente i soliti gesti come ogni anno in questo periodo.

Significa avere l’occasione di dare a questi “soliti gesti” un senso più bello e più profondo. Unico.

Significa, nonostante tutto, avere la consapevolezza di essere a nostro modo fortunati, perché altrove qualcun altro quest’anno non avrà un Natale, non penserà a come addobbare l’albero o a cosa cucinare per la cena della vigilia.

Le nostre tradizioni, ora più che mai, sono il nostro porto sicuro, uno scudo per salvare il buono che, come ho scritto più di una volta, ancora c’è.

In questo modo assaggiare la prima pettola ancora bollente, essere svegliati dolcemente dalla banda e ritrovarsi insieme per le strade all’alba (approfittando del fatto che quest’anno il 22 novembre è domenica), non sarà soltanto il segno di una tradizione che si rinnova, ma il segnale di un piccolo popolo unito nella propria identità, nonostante le diversità ed il male che, some sappiamo, è sempre pronto a dividere e a distruggere.