venerdì 13 febbraio 2015


Luciachiara Palumbo 

"Nonno, fai il perdone?"

Con una semplice domanda di un bambino di 5 anni un sorriso nasce spontaneo. Mi alzo dalla poltrona e presa la sua manina, andiamo insieme in camera da letto.
Apro l'armadio centrale e trovo tutto così come lei lo ha lasciato. 

Il cappuccio è piegato accuratamente nel ripiano di sopra e delicatamente lo prendo per indossarlo e farlo vedere al mio nipotino. Il solo accarezzare quel tessuto mi riporta in mente tanti avvenimenti, ma è quando lo calo sul viso che le emozioni diventano più forti.

Marco mi guarda incuriosito, mentre piano piano diventa sempre più piccolo e sfocato alla mia vecchia vista. E mentre lui scompare raffiora in mente un'altra figura, è la mia amatissima moglie che mi ha lasciato pochi anni fa divorata come tante altre in questa città da quel male che ama strapparci alla vita e che lascia dei vuoti incolmabili in chi resta.

Quante volte l'ho guardata attraverso questi forellini, lei instancabile sempre al mio fianco, che si trattasse del Giovedi o del Venerdi santo, che ci fosse il sole o la pioggia, che fosse giovane o anziana…lei era la mia più fedele compagna, la mia spalla a cui aggrapparmi nei momenti di massima stanchezza.

Adesso solo così mi sembra di poter rivivere ogni singolo istante della nostra vita e di tornare indietro fino al momento in cui tutto ebbe inizio, in quel modo così insolito ma anche così comune per l'epoca. La Settimana Santa tarantina, unica e meravigliosa, era stata l'origine di tutto.

Se io e lei non avessimo condiviso la passione verso questo evento, se non mi fossi identificato in tutto ciò che aveva scritto nel suo primo articolo su Nazzecanne in attesa della Pasqua, se non avessi avuto il coraggio di scriverle i complimenti, io non l'avrei mai conosciuta.

Il bambino non può vedere il mio sorriso sotto il cappuccio , lo stesso sorriso del nostro primo incontro. Avvenne un mese dopo che avevamo iniziato a parlare, esattamente davanti al luogo che tutto aveva fatto nascere, la chiesa del Carmine. Mentre la aspettavo iniziai a guardarmi intorno sperando così di tranquillizzarmi. Quella piazza l'avevo già vista in tante occasioni eppure ogni volta suscitava un'emozione differente. 

L'attenzione si rivolse al portone, ai segni lasciati negli anni passati da tutti i troccolanti che impugnando il bordone avevano colpito per porre fine al rito. 

Presi nervosamente il cellulare e non mi accorsi che lei aveva già svoltato l'angolo ed era lì ad osservarmi. Passarono poche settimane ed eravamo di nuovo lì insieme, forse con meno imbarazzo e più complicità. Sotto la pioggia attendavamo ansiosi quel suono con la paura di non poterlo udire. Alle 17 in punto quelle maniglie iniziarono ad essere agitate, ma durò poco ed anche la marcia di sottofondo venne interrotta bruscamente.

 La scena del troccolante che indietreggiava mentre gli si chiudeva davanti il portone ci colpì tanto da ammutolirci. Non poteva la città non avere la sua processione e forse proprio le preghiere di molti ne permisero l'uscita due ore dopo. Avevo gli occhi fissi sulla mia statua quando senza accorgermene lei si appoggiò a me e iniziammo a nazzicare. 

All'inizio mi sorprese ma poi mi lasciai andare a quel mio primo dondolio.