1) La preghiera del corpo nella Liturgia
2) La preghiera del corpo nella Pietà Popolare (qui di seguito)
nelle prossime settimane:
3) I gesti della nostra Settimana Santa, valore latreutico e valore simbolico - didattico
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“La pietà popolare è una nostra forza, perché si tratta di preghiere molto radicate nel cuore delle persone. Anche persone che sono un po' lontane dalla vita della Chiesa e non hanno grande comprensione della fede sono toccate nel cuore da questa preghiera. Si deve solo «illuminare» questi gesti, «purificare» questa tradizione affinché diventi vita attuale della Chiesa.”
Così insegnava l’amato Papa Benedetto XVI nel 2007 rivolgendosi ai parroci della Diocesi di Roma. Intanto è molto bello sentire le parole del Vicario di Cristo che si riferiscono alla pietà popolare in termini di “forza” per la Chiesa. E poi, per quanto riguarda l’aspetto specifico che qui ci interessa, il Papa, de facto, già definisce la pietà popolare come una preghiera di “gesti”. E' proprio per questo che possiamo parlare di “preghiera del corpo” nell’ambito specifico della pietà popolare.
Nella prima parte di questi brevi appunti sulla preghiera del corpo, abbiamo già notato come della preghiera “verbale”, cioè delle parole che vengono pronunciate dai fedeli, il complesso dei gesti e delle posture costituisce un vero e proprio complemento irrinunciabile. I due linguaggi, quello verbale e quello gestuale, concorrono alla medesima preghiera. E abbiamo ricordato anche come la Chiesa abbia costantemente insegnato che la liturgia è al centro della vita di pietà del cristiano. Se dunque la pietà popolare è una sorta di “prolungamento” della liturgia, è proprio nei gesti di quest’ultima che possono e devono trovare un senso e una giustificazione i gesti della pietà popolare. È nell’imitazione, in definitiva, della sostanza di quelli, che i gesti della preghiera “popolare” troveranno quella luce e quella purezza di cui parlava l’amato papa Benedetto. Abbiamo quindi a disposizione un criterio reale per stabilire se e quanto la preghiera popolare, e i suoi gesti che qui in particolare ci interessano, sono o non sono “puri”, in che misura cioè, sono veicolo di santificazione per chi li compie, e di evangelizzazione per chi vi assiste. È il criterio della aderenza alle forme liturgiche: un criterio concreto, visibile, alla portata di tutti. Un criterio dal quale sarebbe temerario discostarsi. Quando questo è successo, nella storia della Chiesa, si è caduti nella stravaganza o, nei casi peggiori, nell’eresia. Non seguendo quel criterio, il rischio che corriamo è quello della autoreferenzialità: quel rito, quel gesto, quella funzione si fa così perché… si è sempre fatto così. Ma si tratta, a ben vedere, di una trappola, una sorta di tautologia storica e normativa che si arrotola su se stessa e finisce per condurci in un vicolo cieco. A quel punto chiunque, per qualunque motivo, si presenti con l’intenzione di “far del male” a quelle tradizioni a cui noi teniamo tanto, avrà vita facile: quale argomento logico e storico avremo da opporre a chi accuserà i nostri riti di essere superati e senza senso, e accuserà noi di essere dei passatisti nostalgici?
Alla scuola della liturgia, nella Santa Messa innanzitutto, ma anche nella celebrazione dei Sacramenti o nel Salterio, impariamo immediatamente la compostezza e la misura dei gesti. Una compostezza e una misura che, assimilate fino a divenire una forma mentis, un modo di esprimere visivamente la fede, troveremo poi spontaneo e naturale trasferire nella preghiera popolare. Alla scuola della liturgia impareremo ancora che i gesti non sono mai lasciati al caso; impareremo che il gesto, come la parola cui si accompagna, esprime sempre un messaggio che è necessario conoscere, approfondire, tenere ben a mente. Altrimenti quel gesto sarà solo un contenitore vuoto; non sarà più preghiera del corpo ma solo una sequenza di movimenti senza costrutto.
Gli esempi possibili sono innumerevoli. L’esercizio di pietà popolare più diffuso in tutto l’ecumene cristiano è sicuramente la preghiera del Santissimo Rosario, la “preghiera prediletta” di una schiera incalcolabile di Santi e di Pontefici, fino ad arrivare a Papa Francesco che, di ritorno dopo ogni viaggio fuori Roma, prima di rientrare nella propria residenza, si reca nella Basilica di Santa Maria Maggiore per un Rosario di ringraziamento dinanzi alla venerata immagine della Salus Populi Romani. Il Rosario è apparentemente una preghiera di sole parole. Non è così. Il Rosario è preghiera di contemplazione e la contemplazione richiede la compostezza del corpo, che in questo senso quindi, si rende preghiera essa stessa; quella compostezza, anche nell’immobilità, che avremo imparato nella contemplazione durante la Messa, o nella Liturgia delle Ore. Non è un caso che il Rosario sia stato da sempre definito come il Salterio dei poveri. E proprio della preghiera del Salterio, a partire dalla ripetitività, è bene che continui a conservare e preservare le caratteristiche. Ci apparirà quanto meno inopportuno – se non importuno! – quel “devoto” che dovesse accompagnare la lunga serie di Ave Maria con gesti sciatti o irriverenti. Sgranando la Corona fra le dita, potremo recitare il Rosario seduti o inginocchiati, davanti a una immagine della Vergine o durante l’Adorazione eucaristica, in piedi nel corso di una processione, o anche nel mentre di una amena passeggiata. I testimoni del tempo, ad esempio, ricordano come il santo papa Giovanni XXIII fosse solito recitare il Rosario mentre si spostava da una stanza all’altra dei Palazzi Apostolici. In tutti i casi il corpo pregherà all’unisono con le parole pronunciate o pensate.
Un esempio di preghiera del corpo che sta a cuore a tanti che, come noi, hanno compiuto la scelta libera di aderire a una Confraternita, è sicuramente la processione devozionale: si prega col corpo, che si tratti di reggere una statua, un simbolo, un cero, o che si tratti anche solo semplicemente di camminare insieme ai fratelli, precedendo o seguendo il Crocifisso, o l’immagine della Vergine o di un Santo. Mediante la processione, la Chiesa rappresenta se stessa come comunità in cammino. Si tratta in definitiva di una catechesi itinerante, tanto per chi vi partecipa in qualsiasi veste, tanto per chi vi assiste. A tal proposito, papa Francesco, in più occasioni, ha ricordato come la pietà popolare porta in sé la grazia della missionarietà e dell’evangelizzazione. In perfetta sintonia col Santo Padre, il nostro Arcivescovo, mons. Filippo Santoro, parlando della nostra Settimana Santa nel 2013, ricordava come il fine ultimo delle nostre processioni fosse quello di veicolare la bellezza della fede cristiana. Parole dolcissime, esaltanti… ma anche terribili, perché terribile è l’impegno che comportano. E ci viene in soccorso proprio quel criterio cui si accennava prima, l’aderenza dei gesti “popolari” alle forme liturgiche. Pur nella semplicità, la preghiera del corpo in una processione, trasmette – o dovrebbe trasmettere – raccoglimento, devozione, consapevolezza delle proprie azioni, gioia cristiana nella condivisione comunitaria della fede. Anche in questo caso si tratta di valori che apprendiamo dalla liturgia e – naturaliter – trasferiamo nella preghiera popolare. Nel caso specifico, impariamo la compostezza dei gesti, l’ordine, il fasto – e non il lusso, come credono gli ignoranti – del portamento proprio dalle processioni liturgiche: quella introitale od extroitale della Santa Messa, quella eucaristica il Giovedì Santo o il giorno del Corpus Domini, quella gloriosa nella memoria dell’ingresso del Signore in Gerusalemme, la Domenica delle Palme.
Ognuno di noi sa bene quanto nella nostra Confraternita si dedichino infinite energie fisiche e mentali al decoro di ogni processione; ognuno conosce l’impegno profuso nella cura del più piccolo dettaglio. Un impegno che allo sprovveduto potrebbe sembrare inspiegabilmente maniacale, ma che per noi è naturale e irrinunciabile, un impegno che non ammette eccezioni, che si tratti dei Sacri Misteri o che si tratti della processione occasionale dalla cappellina al portone centrale! Tanta cura nasce, per un processo logico di filiazione ed emulazione, dalla cura dei gesti liturgici. Chiunque può fare la prova: laddove, in qualunque parte del mondo, assistiamo a Messe “beat”, “rock”, “creative”, approssimative, di sicuro assisteremo poi a processioni devozionali simili ad una allegra scampagnata... niente a che vedere con lo splendore e la dignità o addirittura la maestà e la ieraticità che possiamo dire, senza tema di smentita, di conoscere bene.
Una liturgia decadente non può produrre che una pietà popolare decadente e – ahimè – destinata alla lenta e inesorabile consunzione di se stessa. Non è un caso che il periodo del cosiddetto “inverno della pietà popolare”, i truculenti anni ’70 del XX secolo, sia coinciso con certi maldestri tentativi di applicazione del Concilio Vaticano II: qualcuno, travisando completamente la lettera e la mens dei documenti offerti alla Chiesa dai Padri Conciliari, ritenne di avviare un processo di semplificazione della liturgia, sconfinando quasi sempre nella banalità. A quel punto moltissimi dei segni e dei gesti di cui la liturgia splendeva, sono divenuti incomprensibili, rimasti come appesi nel nulla, e quindi spesso sottovalutati, trascurati e, infine, dimenticati. E naturalmente appesi nel nulla sono sembrati tanti gesti della preghiera popolare che avevano ormai perso il loro riferimento concettuale e normativo. Ecco perché in quegli anni in molti hanno tentato di convincerci che la pietà popolare, con i suoi riti, gesti, processioni, fosse un retaggio ormai inutile o addirittura dannoso. Hanno tentato di convincerci… e, grazie a Dio, almeno con noi, non ci sono riusciti!
Ognuno di noi sa bene quanto nella nostra Confraternita si dedichino infinite energie fisiche e mentali al decoro di ogni processione; ognuno conosce l’impegno profuso nella cura del più piccolo dettaglio. Un impegno che allo sprovveduto potrebbe sembrare inspiegabilmente maniacale, ma che per noi è naturale e irrinunciabile, un impegno che non ammette eccezioni, che si tratti dei Sacri Misteri o che si tratti della processione occasionale dalla cappellina al portone centrale! Tanta cura nasce, per un processo logico di filiazione ed emulazione, dalla cura dei gesti liturgici. Chiunque può fare la prova: laddove, in qualunque parte del mondo, assistiamo a Messe “beat”, “rock”, “creative”, approssimative, di sicuro assisteremo poi a processioni devozionali simili ad una allegra scampagnata... niente a che vedere con lo splendore e la dignità o addirittura la maestà e la ieraticità che possiamo dire, senza tema di smentita, di conoscere bene.
Una liturgia decadente non può produrre che una pietà popolare decadente e – ahimè – destinata alla lenta e inesorabile consunzione di se stessa. Non è un caso che il periodo del cosiddetto “inverno della pietà popolare”, i truculenti anni ’70 del XX secolo, sia coinciso con certi maldestri tentativi di applicazione del Concilio Vaticano II: qualcuno, travisando completamente la lettera e la mens dei documenti offerti alla Chiesa dai Padri Conciliari, ritenne di avviare un processo di semplificazione della liturgia, sconfinando quasi sempre nella banalità. A quel punto moltissimi dei segni e dei gesti di cui la liturgia splendeva, sono divenuti incomprensibili, rimasti come appesi nel nulla, e quindi spesso sottovalutati, trascurati e, infine, dimenticati. E naturalmente appesi nel nulla sono sembrati tanti gesti della preghiera popolare che avevano ormai perso il loro riferimento concettuale e normativo. Ecco perché in quegli anni in molti hanno tentato di convincerci che la pietà popolare, con i suoi riti, gesti, processioni, fosse un retaggio ormai inutile o addirittura dannoso. Hanno tentato di convincerci… e, grazie a Dio, almeno con noi, non ci sono riusciti!
Nella liturgia non c’è niente che sia lasciato al caso o alla fantasia peregrina del creativo di turno. È naturale che il fedele, affascinato, edificato ed istruito dal semplice splendore – o dalla splendida semplicità – delle forme liturgiche normate, tenda poi a interpretare ed elaborare quelle forme nella preghiera del cuore, nella preghiera popolare. Non si tratterà, a quel punto, di seguire pedissequamente a memoria un triste copione; sarà invece il frutto di una solida formazione e di una mentalità acquisita. L’inconsapevolezza del devozionismo infantile avrà lasciato il passo alla certezza della devozione adulta. Su questo particolare aspetto, il Padre Spirituale della nostra Confraternita, mons. Marco Gerardo, è tornato a insitere più volte negli ultimi anni, in catechesi, omelie, incontri di formazione. Memorabile, a tal proposito, è rimasta l'omelia per la Messa in piazza Carmine del 15 giungno 2014, al termine della processione straordinaria per l'accoglienza delle statue di Gesù Morto e dell'Addolorata con i segni di distizione pontificia.
Recuperare, dunque, e approfondire il rapporto di stretta conseguenzialità dei gesti della preghiera popolare rispetto ai gesti della liturgia. Facciamoci caso: di solito i detrattori della pietà popolare – sono così tanti i soloni malparlieri che abbiamo solo l’imbarazzo della scelta – sono accomunati tutti, quale che sia la loro provenienza culturale, o più spesso sub-culturale, da una sorta di marchio di fabbrica: non capiscono e quindi non amano la liturgia! Chi pretende di pontificare sui gesti della pietà popolare, su quella preghiera del corpo, sostenendone una presunta mancanza di significato, esprime un giudizio inopportuno perché solitamente gravato da ignoranza o, peggio, da inettitudine. È un problema di incomunicabilità: evidentemente il detrattore non coglie in quei gesti il legame con le forme liturgiche. È una incomunicabilità che può essere imputata, come si diceva, all’ignoranza di chi esprime giudizi affrettati. Ma con tanta onestà intellettuale, amore per la verità e soprattutto con tanta carità verso noi stessi e verso gli altri, abbiamo il dovere di chiederci se tante volte non siamo stati noi in grado di comunicare in modo poco adeguato. Ecco perché, nel nostro secolo più che in passato, nella nostra società che dal non-cristianesimo sta baldanzosamente ormai trotterellando verso l’anti-cristianesimo, oggi più che mai, siamo interpellati dall’urgenza di recuperare e acquisire la consapevolezza piena e sicura dei nostri gesti, delle nostre tradizioni, del nostro retaggio devozionale, cultuale, rituale. Se amiamo le “nostre cose”, non c’è alternativa. Al tempo dei nostri nonni poteva ancora essere sufficiente una adesione vagamente sentimentale: la processione è bella perché mi piace, perché mi emoziona, perché mi ricorda i miei predecessori… è bella… perché si! Oggi tutti questi “perché” rimangono validi, certo, ma non sono più sufficienti senza la dovuta consapevolezza.
Siamo fanti in trincea, a difesa di una cristianità assediata dal secolarismo, dall’ateismo, dal relativismo, dal sincretismo, dalla superficialità, dal pensiero debole, dal pensiero unico, dal modernismo. Le armi di cui possiamo disporre sono l’orazione e la testimonianza. Dobbiamo saperlo e dobbiamo ricordarlo: ogni volta che portiamo le nostre statue in strada, in processione, ogni volta che preghiamo in pubblico, ogni volta che vestiamo i nostri abiti di rito, ogni volta che ci azzardiamo anche solo a fare un segno di Croce, ogni volta stiamo sfidando quella parte di mondo che non ci vuole, non ci capisce, non ci vuole capire. E lasciamo pure che il professore e l’esperto convocato alla bisogna ci vengano a raccontare di quanto siamo belli e di quanto siamo, folkloristicamente e antropologicamente, interessanti. Ci farà piacere, perché no! Ma la sostanza del nostro gesto devozionale è un’altra: la nostra è la buona battaglia di cui scriveva San Paolo.
E allora quel giorno, quel Sabato Santo quando, stanchi, sfiniti, doloranti, gonfi gli occhi e tirati i cuori, forse con i piedi e le spalle a pezzi, al termine del lungo pellegrinaggio, quando quel giorno faremo ritorno alla nostra Chiesa, quando poggeremo sui legni le nostre statue, quando riconsegneremo i bordoni e i simboli, quando svestiremo il nostro abito, devotamente come quando l’avevamo indossato, allora potremo dire insieme all’Apostolo: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi – Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede!
Siamo fanti in trincea, a difesa di una cristianità assediata dal secolarismo, dall’ateismo, dal relativismo, dal sincretismo, dalla superficialità, dal pensiero debole, dal pensiero unico, dal modernismo. Le armi di cui possiamo disporre sono l’orazione e la testimonianza. Dobbiamo saperlo e dobbiamo ricordarlo: ogni volta che portiamo le nostre statue in strada, in processione, ogni volta che preghiamo in pubblico, ogni volta che vestiamo i nostri abiti di rito, ogni volta che ci azzardiamo anche solo a fare un segno di Croce, ogni volta stiamo sfidando quella parte di mondo che non ci vuole, non ci capisce, non ci vuole capire. E lasciamo pure che il professore e l’esperto convocato alla bisogna ci vengano a raccontare di quanto siamo belli e di quanto siamo, folkloristicamente e antropologicamente, interessanti. Ci farà piacere, perché no! Ma la sostanza del nostro gesto devozionale è un’altra: la nostra è la buona battaglia di cui scriveva San Paolo.
E allora quel giorno, quel Sabato Santo quando, stanchi, sfiniti, doloranti, gonfi gli occhi e tirati i cuori, forse con i piedi e le spalle a pezzi, al termine del lungo pellegrinaggio, quando quel giorno faremo ritorno alla nostra Chiesa, quando poggeremo sui legni le nostre statue, quando riconsegneremo i bordoni e i simboli, quando svestiremo il nostro abito, devotamente come quando l’avevamo indossato, allora potremo dire insieme all’Apostolo: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi – Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede!