mercoledì 29 gennaio 2014

Giovanni Schinaia
Corriere del Giorno, Giovedì Santo 2012




Sono le 15 in punto del Giovedì Santo quando finalmente, dopo un lunghissimo anno di attesa, si aprono i due ingressi della Chiesa del Carmine: la Prima Posta di Città Vecchia e la Prima Posta di Città Nuova, danno inizio al rito del Pellegrinaggo agli Altari della Reposizione, la parte visibile della Settimana Santa è iniziata.
I Confratelli vestono l’abito di rito della Confraternita del Carmine: un sacco bianco, simbolo della veste battesimale; lo Scapolare del Carmelo, nero con le scritte ricamate in azzurro: Decor Carmeli; la mozzetta color crema con i bottoncini neri; il cappello nero bordato di azzurro, il cappuccio bianco a coprire il viso. In una mano reggono il bordone, nell’altra, nascosta sotto la mozzetta, una grande corona del Rosario. Avanzano scalzi, a coppie. 
L’evento cultuale svolto in coppia ha una lunghissima tradizione nella storia della Chiesa. L’origine è facilmente individuabile nel brano evangelico in cui Gesù invia i suoi a predicare, appunto due a due: Et vocabit duodecim: et coepit eos mittere binos …(Mc 6, 7). 
Fra i tanti esempi possibili, ricordiamo come il Serafico Padre san Francesco mandasse i suoi frati in giro per il mondo, sempre in due: ogni frate aveva il suo comes, il compagno di viaggio. Anche Giotto, nel celebre ciclo della Basilica Superiore di Assisi, non manca mai di raffigurare, insieme a San Francesco, il frate che lo accompagnava.
Ogni coppia di perdùne è tradizionalmente chiamata “posta”. Con ogni probabilità il termine, che ci è consegnato oralmente sin dagli inizi, senza soluzione di continuità, fa riferimento al significato tradizionale di “fermata”, “sosta”, e per estensione, tutta quella parte di preghiera compresa fra due termini: una posta del Rosario, una posta, o stazione, della Via Crucis; la posta di un Pellegrinaggio era la statio liturgica all’inizio o durante il cammino.
E anche i nostri perdùne, nel loro pellegrinaggio, sosteranno più volte per adorare il SS.mo Sacramento solennemente custodito nei Repositori nelle chiese dove si sarà celebrata la Messa in Coena Domini: la Cattedrale di San Cataldo, San Domenico e San Giuseppe nel Centro Storico, e San Francesco da Paola, SS.mo Crocifisso e San Pasquale Baylon, nel Borgo umbertino. Il giro si concluderà poi per tutte le poste, con l’adorazione nella stessa Chiesa del Carmine.
È un rito, quello del Pellegrinaggio dei Confratelli del Carmine, in cui confluiscono due tradizioni diverse: il pellegrinaggio eucaristico raccomandato a tutti i fedeli nella sera del Giovedì Santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, e il tradizionale giro delle Sette Chiese che, ab immemorabili, i cristiani di Roma e i pellegrini dell’Urbe compivano recandosi in successione nelle quattro Basiliche Patriarcali oltre che in San Lorenzo fuori le mura, Santa Croce in Gerusalemme, e San Sebastiano. Il pellegrinaggio, caduto in disuso al termine del Medioevo, fu ripreso da San Filippo Neri nel 1552.

Perché sette chiese? Alla già ricchissima simbologia biblica e liturgica legata al numero sette, si aggiunge un particolare legato alla passione del Signore: secondo i racconti evangelici, erano sette i viaggi compiuti da Gesù fra il Giovedì e il Venerdì Santo: dal cenacolo al Getsemani, dal Getsemani alla casa di Anna, poi alla casa di Caifa, da questa al palazzo di Pilato, da qui a quello di Erode, poi ancora da Erode a Pilato, e per finire dal palazzo di Pilato al Calvario. Sette dunque le “poste” di questo cammino romano che, ben presto i Sommi Pontefici dotarono di speciali indulgenze per i pellegrini che lo avessero compiuto devotamente. Le stesse indulgenze che il beato papa Pio IX, nel 1875, volle estendere proprio ai nostri Confratelli del Carmine, come se anche loro compissero, qui a Taranto, il giro delle Sette Chiese.

E che i nostri perdùne siano dei pellegrini “speciali”, pellegrini a tutti gli effetti, lo capiamo proprio da alcuni particolari con cui si offrono alla nostra vista. Nell’abito di rito infatti troviamo degli elementi che appartengono decisamente alla tradizione del Carmelo: lo Scapolare, la mozzetta dello stesso colore della “cappa” del Prim’Ordine Carmelitano, il cingolo nero pendente, i piedi scalzi, secondo la riforma teresiana del Carmelo che adotta lo scalzismo sull’esempio della riforma francescana di San Pietro d’Alcantara. E troviamo anche elementi che riconducono invece alla tradizione medievale dei pellegrinaggi: il cappello a falde larghe e il bordone, dapprima simboli, poi considerati vere e proprie insegne da imporre, in una speciale cerimonia, ai pellegrini che intraprendevano il viaggio: i palmieri che si recavano a Gerusalemme e che sul petto o sul cappello aggiungevano una palma di Gerico o un ramo d’ulivo, i romei che si recavano a Roma, caratterizzati dalle chiavi di San Pietro o da una Veronica o ancora dalle medaglie con l’immagine degli Apostoli – a proposito, questa usanza dei romei di portare le medaglie appese alla cintola non sarà forse all’origine dei nostri Rosari ricchi di medaglie? – e infine gli Jacopei o peregrini veri e propri che si recavano al sepolcro di San Giacomo a Compostela e che appuntavano al petto una conchiglia di San Giacomo. 
I nostri perdùne sono pellegrini per le nostre strade, e dei pellegrini medievali vestono ancora oggi le insegne. Ma sono anche Confratelli che, come gli altri fedeli, si recano in visita al Santissimo Sacramento custodito negli altari della Reposizione, quelli che una lunghissima tradizione ci ha abituato a chiamare “Sepolcri”. Oggi si preferisce la più corretta dicitura di Repositori, ma ancora fino alla riforma dell’Ordo liturgico, dopo il Concilio Vaticano II, anche i libri ufficiali di liturgia spiegavano che gli altari della Reposizione ricordavano anche il Sepolcro del Signore. 
Forse all’origine della dicitura “sepolcro” c’era un ricordo, un’esperienza portata in occidente proprio dai palmieri: nella Basilica di Gerusalemme il SS.mo Sacramento dopo la Messa del Giovedì Santo veniva “riposto” o, come si diceva “sepolto”, proprio nel Santo Sepolcro del Signore. Si deve poi all’intuizione di grandi uomini di fede vissuti tutti nel ‘500 come il ravennate don Antonio Bellotti, il cappuccino padre Giuseppe da Ferno, l’eremita fra Buono da Cremona e soprattutto il suo amico e fondatore dei Barnabiti, Sant’Antonio Maria Zaccaria, l’idea di prolungare l’adorazione per almeno 40 ore, quante – secondo il computo di Sant’Agostino – il corpo di Gesù aveva trascorso nella nuda terra, ed ecco ancora un riferimento al Sepolcro. Ben presto i gesuiti “sdoppiarono” questa tradizione, accostando all’adorazione del Giovedì Santo, quella delle Quarantore negli ultimi giorni di carnevale, le stesse Quarantore, negli stessi giorni, che ancor oggi proprio i nostri Confratelli del Carmine, compiono con devozione e grande partecipazione, quasi come un anticipo del Giovedì Santo.

Un universo di simboli, un carico prezioso di storia sacra, devozioni e tradizioni: ecco cosa rappresentano i nostri perdùne, cosa significano e cosa esprimono nei loro gesti, nei loro abiti, nelle loro movenze che vengono da un lontano passato, e, dopo aver scavalcato nei secoli le mode, i materialismi e i secolarismi di ogni colore, continuano a parlare ancora forte ai cuori dei fedeli nel nostro presente.